Andatelo a dire al colonnello Mendella che la separazione delle carriere tra giudici e pm non serve. Sulla sua strada Fabio Massimo Mendella non ha trovato solo due pubblici ministeri che credevano alle bugie di un lestofante seriale. Ha trovato un giudice preliminare che ha creduto ai pm e lo ha sbattuto in cella: «sei mesi- ricorda l'ufficiale - in mezzo ai delinquenti della peggior specie». Poi un tribunale della Libertà che lo marchiato come un professionista della corruzione. Poi un tribunale dove tre giudici hanno preso anche loro per oro colato le parole dei pm e del loro «pentito», e gli hanno rifilato quattro anni di carcere. C'è voluta la Corte d'appello di Napoli perché finalmente quello che era chiaro dall'inizio diventasse sentenza: assolto con formula piena, «il fatto non sussiste». In mezzo, una vita e una carriera distrutte, «la mia famiglia buttata nel cesso». Il sistema comprende le vendette trasversali: il fratello di Mendella, anche lui ufficiale della Guardia di finanza, viene trasferito a distanza di sicurezza dalla città dove questa ingiustizia inizia e finisce: Napoli.
Da una manciata di giorni Mendella è fuori dal tunnel. La Procura generale di Napoli, che pure in appello aveva chiesto la conferma della sua condanna, non ha impugnato la sentenza di assoluzione emessa dalla Corte d'appello. L'assoluzione è diventata definitiva. E ora Mendella fa il conto delle cicatrici che questa storia gli ha lasciato addosso. La più vistosa, la carriera demolita. Quando lo arrestarono era colonnello, comandava il gruppo di Roma della Guardia di finanza. E colonnello è rimasto: «Oggi sarei generale di divisione».
I pm che lo arrestarono l'11 giugno 2014 si chiamano Henry John Woodcock e Vincenzo Piscitelli. Nell'ordinanza di cattura, anche se non c'entrava niente, il giudice scrisse che Mendella era andato su una barca con i calciatori Fabio Cannavaro e Ciro Ferrara, quei dettagli che piacciono tanto ai giornalisti. Le agenzie di stampa titolarono: «La bella vita del colonnello tra feste e case».
A Mendella i due pm contestavano una sfilza di tangenti che attraverso un commercialista avrebbe incassato da un imprenditore per addomesticare i controlli. «In realtà - racconta lui - neanche alla Procura era chiarissimo in cosa fosse consistito l'addomesticamento. Prima dicevano che avevo fatto fare una indagine blanda, quando è saltato fuori che blanda non era affatto hanno cambiato linea e hanno detto che era lenta. Alla fine si è capito che non era né lenta né blanda e hanno dovuto assolvermi».
Mendella era così sicuro del fatto suo che davanti ai giudici d'appello ha rinunciato alla prescrizione. Atto di fede (un po' spericolato, verrebbe da dire) nella giustizia, ma i fatti gli hanno dato ragione.
La sentenza non si limita a dichiararlo innocente. Demolisce la credibilità dell'unico testimone d'accusa, l'imprenditore Giovanni Pizzicato: la sentenza parla di «illogicità di fondo», «ondivaga», «profonda incoerenza», «spregiudicatezza criminale». E soprattutto indica il vero tema che aleggia sull'intera vicenda: l'impunità che Pizzicato si è garantito spacciandosi per collaboratore di giustizia.
Il percorso degli accadimenti è lineare. Il 15 maggio 2013 Mendella manda in Procura una informativa sulle attività criminali di Pizzicato, chiedendone l'arresto e il sequestro dei beni. Non accade nulla. Il 13 giugno l'ufficiale manda una nuova informativa ribadendo la richiesta. Ancora nulla. Pizzicato lo viene a sapere, gioca d'anticipo, si presenta spontaneamente in Procura e in cambio dell'impunità offre ai pm la testa di Mendella su un piatto d'argento («a seguito delle dichiarazioni accusatorie rese nei riguardi del Mendella i Pizzicato non hanno mai subito alcun procedimento penale per i fatti sui quali aveva indagato Mendella», si legge nella sentenza d'appello). A ingolosire la Procura non è solo il colonnello. Nella teoria dei pm, Mendella è lo snodo per arrivare ancora più in alto, fino al comando generale della Guardia di finanza: il numero due Vito Bardi. Anche Bardi finisce indagato e su tutti i giornali, poi Woodcock si deve arrendere e lo archivia. Oggi è presidente della Basilicata.
Mendella invece per rivedere la luce deve aspettare dieci anni.
Nel frattempo, il suo accusatore ha continuato a delinquere, fin quando non lo hanno arrestato a Torino. Dei beni per centinaia di milioni che aveva accumulato truffando lo Stato, e che Mendella voleva sequestrare, sono rimaste le briciole.
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