L'Ue perde le speranze. "Germania ancora in recessione". Pesa il flop dell'auto

Quest'anno Pil atteso in calo dello 0,1% Il malato tedesco contagia la zona euro

L'Ue perde le speranze. "Germania ancora in recessione". Pesa il flop dell'auto
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Una volta avevano lo Sturm und Drang. Ora che l'impeto teutonico s'è dissolto, resta solo la tempesta. Neanche un po' dolcenera, per dirla con De André. Semmai perfetta, con quell'insinuarsi nei gangli politici ed economici di un Paese senza più governo, caduto per la stessa ragione che in genere manda a casa tutti i governi: lo stato dell'economia. Del cui cappottamento ha ieri emesso la certificazione definitiva la Commissione europea con la stima che anche quest'anno la Germania resterà prigioniera della recessione (-0,1% dopo il -0,3% del '23). Rezession 2.0. Destino reso inevitabile dalla miopia di chi ha trasformato la Locomotiva d'Europa nel Sick man continentale, un malato capace di contagiare l'eurozona in ragione di quel 28% che è il proprio peso sul Pil dell'intera area (in contrazione Estonia, Austria, Irlanda e Finlandia), con ripercussioni anche sull'Italia (Bruxelles prevede una crescita dello 0,7% quest'anno, lo 0,1% in meno della media). A soffrire di più sarà la filiera della componentistica, destinata a subire l'onda d'urto della chiusura di impianti decisa da Volkswagen, Porsche e Audi. Meglio quindi non gioire troppo delle disgrazie altrui, tenendo a freno la Schadenfreude. Anche perché Confindustria non nasconde la mala piega presa, «con la moda e l'auto che affossano» il settore, anche se il taglio dei tassi e il comparto dei servizi continueranno a sostenere la nostra economia.

In ogni caso, la Germania ha finito per pagare caro l'inerzia colpevole della coalizione semaforo guidata da Olaf Scholz. Incapace di mettere in atto quelle riforme strutturali necessarie per rimodellare un modello di sviluppo basato fondamentalmente sui due pilastri che avevano fatto la fortuna di Angela Merkel in circa 16 anni di Cancellierato: massicce esportazioni verso i Paesi emergenti (Cina in primis) ed energia a basso costo (comprata dalla Russia) per tenere sotto controllo le bollette dell'apparato industriale. Questo mondo non c'è più. Ma non si frantumato nell'éspace d'un matin. Il Consiglio tedesco degli esperti economici ha di recente sottolineato che l'economia tedesca resta «frenata da problemi strutturali e ciclici» e che, al netto dell'inflazione, il Pil della Germania si è espanso appena dello 0,1% negli ultimi cinque anni.

Le avvisaglie della crisi erano quindi sotto gli occhi di tutti, ma anziché reagire attraverso un piano di investimenti teso a ridare slancio al Paese, a renderlo più competitivo sul mercato domestico ed estero e ad avviare un'azione di ammodernamento delle reti di comunicazione, Berlino è rimasta impigliata nella ragnatela del pareggio di bilancio. Dopo che la Corte costituzionale ha scoperto le alchimie contabili per stornare impropriamente 60 miliardi di euro di fondi destinati alla lotta al Covid, non è stato investito un centesimo. Come confermato sempre dalla Commissione Ue, il debito-il tedesco è destinato a stabilizzarsi al 63%. Eppure, l'ex ministro delle Finanze Christian Lindner ha mantenuto la Germania sul binario di una rigida austerità, imponendola anche agli altri partner europei attraverso la riforma del Patto di stabilità.

Oltre all'incognita su quale risultato uscirà dalle urne il prossimo 23 febbraio, la Germania dovrà far fronte anche al protezionismo di Donald Trump. Un autentico veleno.

L'Istituto per l'economia mondiale di Kiel ha calcolato che se gli Usa applicassero un dazio generalizzato su tutti i beni importati dall'Europa del 10% e del 60% sulle importazioni cinesi (come dichiarato dal Tycoon in campagna elettorale), il commercio globale potrebbe ridursi del 2,5%, con cali a lungo termine di circa il 3%. Il presidente della Bundesbank, Joachim Nagel, è stato esplicito: le tariffe punitive Usa potrebbero «pesare per l'1% dell'attività economica tedesca». Un'altra tempesta è in arrivo.

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