Ci sono bei quadri e grandi pittori. Non necessariamente le due categorie coincidono. Appaiono talvolta bellissimi dipinti di autori sconosciuti, quelli che io chiamo «invisibili», e dei quali parlerò nel nuovo spettacolo al Teatro Romano di Verona, il 20 settembre alle 20,45, in prima nazionale. Poi ci sono loro. Poco più di dieci: Leonardo, Raffaello, Botticelli, Caravaggio, Michelangelo, Tiziano, Giorgione, Rubens, Vermeer, Rembrandt, Velázquez. Tolto l'ultimo, la cui libertà consente sorprese, l'annuncio di un nuovo Raffaello o di un nuovo Leonardo è quasi sempre una bufala. Non falsi ma opere di medio interesse delegate ai piccoli maestri o alle scuole cui appartengono, ma che diventano capolavori, o presunti tali, solo in virtù dell'abbinamento con il grande nome: madonnine, ritagli di santi, pilastrini di cornici, predellle. Certo non è impossibile che si affacci, anche per la sua imprevedibilità, un Paolo Uccello. O, come è capitato in tempi recenti, un Gentile da Fabriano. Grandissimi artisti, ma di minor nome e meno remunerativi per la gloria dello studioso che li ha riconosciuti.
La fame di Leonardi e Raffaelli è anche legata al mercato. Fece rumore il «Cristo benedicente» di Leonardo, venduto a un'asta a New York per 450 milioni di dollari e, pare, acquisito dal principe saudita Mohammed bin Salman (che si sarà provveduto di una perizia di Matteo Renzi). Ebbe fortuna immediata ma l'entusiasmo è durato per un tempo breve, e intanto sono circolate fotografie sullo stato dell'opera prima del restauro, quindi molto «aiutata» a essere Leonardo. Poi sono cominciati i dubbi, pilotati dal «respingimento» dell'opera ai confini del tempio, il Louvre, in occasione di una grande mostra su Leonardo.
È notevole la scoperta, meno impossibile e più remunerativa, di un dipinto di Caravaggio: il penultimo, «La cattura di Cristo» di Dublino, rese famoso un restauratore, Sergio Benedetti, accolto solennemente nell'empireo degli storici dell'arte. Allo stesso scranno aspira l'amico Francesco Petrucci che si è gia esercitato con l'attribuzione a Caravaggio di una parte della «Morte della vergine», non universalmente riconosciuta, e ora vi si sta riapplicando con una seconda versione della «Cattura di Cristo» (in mostra dal 15 ottobre al Palazzo Chigi di Ariccia). Con Caravaggio il campo è aperto. Vi sono entrato anch'io con l'attribuzione di un «Ecce Homo», apparso nel 2021 a Madrid. In questo caso il coro dei consensi è stato unanime, ma l'evidenza dell'autografia è tale che nessuno può dirsene esclusivo scopritore.
Con Raffaello la situazione è più complicata. Non se ne vedono da anni e, quando appaiono, sono ritagli, frammenti, santini. E così, di domenica mattina, da un luogo remoto del mondo, casca l'asino: una tavoletta né brutta né bella, di soggetto e iconografia già conosciuta, in un convegno cui partecipano alcuni malinconici e debilitati critici d'arte desiderosi di fama, diventa una nuova «Maddalena» di Raffaello. Essa era stata da tempo covata nella collezione di un raccoglitore italiano frequentatore di mercatini, che aspettava il momento di poter rivelare al mondo quello che si conosceva già in un museo pubblico (più rassicurante e certo) con un nome più piccolo, fingendolo all'estero per evitare l'invadente attenzione di una Soprintendenza che potrebbe vincolarlo limitando la circolazione dell'opera e quindi l'unica ragione di interesse: il suo valore materiale; non la novità, non l'importanza. Nessuna possibilità che il dipinto sia del maestro urbinate. È soltanto uno scoop giornalistico. Già è bizzarra l'idea di una «Maddalena» con le sembianze della moglie del Perugino, come è sospetta la pur legittima propensione di alcuni studiosi a pronunciarsi soltanto su grandi nomi: Raffaello, Leonardo, Botticelli.
Perugino basta e avanza. L'opera annunciata come Raffaello è infatti una versione, forse autografa, di un prototipo di Perugino conservato a Palazzo Pitti, di cui si conosce un'altra versione alla Galleria Borghese. Difficile che, nel 1504, quando, in contrasto con il suo Maestro nello «Sposalizio della Vergine» di Caen, Raffaello, con infinita grazia, dipinge il suo mirabile «Sposalizio», ora a Brera, che è tanto più libero, nuovo e sciolto di quello del maestro, egli si applichi a fare una copia del Perugino che, in quel momento, ha già lasciato alle spalle. E altrettanto impossibile è che il Perugino dipinga una copia di Raffaello. Al massimo, dunque, la nuova versione, di collezione privata, è una replica del Perugino. Di cui verificare l'autografia rispetto a quella certa delle opere conservate nei musei e di pubblico dominio. Quando una versione è in un museo, quella privata, se non potenziata con un nome roboante, annaspa.
Il gioco del privato che possiede un'opera «più» autentica di quella di un museo, è già stato tentato, per
Raffaello, con l'autoritratto giovanile. Poi la febbre è passata. Ma è evidente che la proprietà privata, e la conoscenza dal vivo soltanto di alcuni studiosi, sono pregiudizievoli per il riconoscimento della autografia.
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