Una pietra sopra la vocazione di certi giudici a giudicare il mondo e la storia, anziché occuparsi di reati. È questa la sentenza - per alcuni aspetti memorabile - con cui la Cassazione non si limita ad assolvere definitivamente i carabinieri del Ros, l'ex senatore Marcello Dell'Utri e persino un paio di boss di Cosa Nostra imputati nel processo Stato-Mafia, ma condanna invece i colleghi che a quel processo hanno dedicato sentenze colossali in cui invece che delle prove - assenti, ipotizzate - si occupavano di scrivere a modo loro la storia d'Italia. Un giudizio che rimbalza sulla vera responsabile di questa impresa titanica, la Procura di Palermo che ha portato sul banco degli imputati i vertici del Ros dei carabinieri, servitori dello Stato come Mario Mori e Antonio Subranni, con accuse che la Cassazione liquida con un solo aggettivo: «Insussistenti».
Passaggio chiave delle motivazioni, che investe sia le condanne pronunciate in primo grado che le assoluzioni in appello: «Le sentenze hanno optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico». Invece anche quando si tratta di fatti di estrema rilevanza, il giudice deve limitarsi «all'accertamento dei fatti oggetto dell'imputazione». Questo a Palermo non è avvenuto: i giudici «hanno finito per smarrire la centralità dell'imputazione nella trama del processo penale, profondendo sforzi imponenti nell'accertare fatti spesso poco o per nulla rilevanti nell'economia del giudizio». E quando hanno affrontato i reati, i giudici siciliani si sono dimenticati che la colpevolezza va dimostrata «ogni ragionevole dubbio».
Solo in questo modo, dice la Corte, si è potuto sostenere che il governo - prima Ciampi, poi Berlusconi - abbia preso decisioni in ossequio alle minacce di Cosa Nostra. A queste minacce le sentenze hanno dedicato un ruolo cruciale, ma le hanno ricostruite in modo «minimale», affogando il dettaglio in un mare di fatti irrilevanti: «Le motivazioni delle sentenze hanno assunto, sia in primo, che in secondo grado, una mole imponente (5.237 pagine in primo e 2.971 pagine in secondo grado), tale da offuscare le ragioni della decisione e rendere le linee argomentative di difficile identificazione e interpretazione». Sono parole che oggettivamente travalicano anche il galateo che tra magistrati prevede in genere di non infierire sui colleghi. Ma davanti allo «smarrimento» dei giudici siciliani la Sesta sezione penale della Cassazione, presieduta da Giorgio Fidelbo, ha ritenuto fosse doveroso parlare chiaro.
Tutto, nella ricostruzione dei pm palermitani (con in testa Antonino Ingroia e Nino Di Matteo) ruotava intorno alle concessioni che Cosa Nostra avrebbe ottenuto dal governo per fare cessare la stagione delle stragi: di quelle pretese Mario Mori sarebbe stato il mediatore, e per questo gli è stata distrutta la carriera. Ma la Cassazione dice che analizzare le divisioni interne alla Cupola fu semplicemente una «operazione di intelligence», e che Mori non recapitò mai alcuna minaccia. Fece il suo lavoro, insomma. Peraltro le spaccature interne alla mafia erano ben note al governo anche da altre fonti.
Altri aspetti delle sentenze Stato-Mafia vengono demolite dalla Cassazione, che le accusa di avere «invertito i poli del ragionamento indiziario» in quanto «l'esclusione di possibili ipotesi alternative non può supplire alla carenza di
certezza dell'indizio». Ma sono vizi già visti e criticati in altri processi. Ad essere inedito, e contundente, è quell'aggettivo: «storiografico». Il diritto, la giustizia, sono un'altra cosa, manda a dire ieri la Cassazione.
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