Giù le mani dalla Costituzione, dice la sinistra che ha violentato la Carta a colpi di mano. Dalla riforma flop costata Palazzo Chigi a Matteo Renzi alla sciagurata revisione del Titolo V, fatta in fretta e furia dal premier Massimo D'Alema per raccattare (invano) qualche voto leghista. Per non parlare dei capi di Stato eletti motu proprio come il primo Giorgio Napolitano o il primo Sergio Mattarella. Ora che il centrodestra punta al suo storico cavallo di battaglia, l'elezione diretta del presidente della Repubblica, la sinistra perde le staffe. Ma l'imprinting «presidenzialista» che il centrodestra ha il diritto di proporre, se vince le elezioni, necessita di una riforma complessa e piena di insidie. Non si tratta di riscrivere solo qualche articolo della Costituzione ma di mettere mano anche all'intera architettura dello Stato: dal suo ruolo nel Consiglio supremo di Difesa al meccanismo della promulgazione delle leggi fino alle nomine al Csm e alla Corte costituzionale, i poteri oggi in capo al Quirinale andrebbero rivisti per evitare il rischio di sbilanciare eccessivamente gli equilibri tra istituzioni. «Si può fare con una riforma costituzionale mirata, oppure anche attraverso un'Assemblea costituente che riveda i fondamenti della nostra Carta, con tutte le difficoltà tecniche del caso», ragiona il costituzionalista Alfonso Celotto.
Partiamo dalla proposta Fdi bocciata dalle Camere il 10 maggio scorso: prevede che il presidente venga candidato da un gruppo parlamentare presente in almeno una delle due Camere o da almeno 200mila elettori, abbia più di 40 anni e rimanga in carica per cinque anni, per non più di due mandati. Oggi tecnicamente non c'è un limite alla rieleggibilità ma «l'assenza di una disposizione ne determina il tacito divieto», osserva Ivano Iai, che ha più volte sollevato l'eccezionalità della rielezione per Napolitano e Mattarella e i possibili «effetti distorsivi nelle prassi costituzionali».
«Se fosse eletto direttamente dal popolo il presidente della Repubblica perderebbe il ruolo di garante della Costituzione come vorrebbe Fdi perché non sarebbe più una figura super partes», dice l'ex presidente della Consulta Gustavo Zagrebelsky.
Altra questione. È ragionevole pensare che se anche i moderati potessero disporre di una maggioranza politica «qualificata», si potrebbe modificare la Costituzione con una doppia lettura del testo tra Camera e Senato a distanza di almeno tre mesi l'una dall'altra e dopo l'esame delle commissioni. E se così non fosse, come al momento ipotizzano i sondaggi più favorevoli al centrodestra, è pacifico che comunque per Fratelli d'Italia, centristi, Forza Italia e Lega sarebbe opportuno cercare in Parlamento l'appoggio di forze politiche estranee alla coalizione, non solo per una questione numerica ma per ragioni di opportunità istituzionale. Le stesse che la sinistra, oggi sul piede di guerra, ha bellamente snobbato in passato.
Questo significa che ci potrebbero volere minimo due anni, ma con una corsia preferenziale e sempre che il Parlamento non debba affrontare emergenze come la pandemia o la crisi economica. Un timing che dunque scatterebbe non dal 26 settembre, e neanche dal momento in cui le Camere si dovessero insediare (il 13 ottobre) ma solo dopo l'elezione dei presidenti di Camera e Senato, delle consultazioni dell'esecutivo che poi dovrà giurare, e sempre successivamente alla nomina dei presidenti di commissione. Si arriverebbe di fatto all'inizio del 2025, a metà del mandato di Mattarella. Ma è una stima eccessivamente ottimistica. Potrebbe volerci tutta la legislatura.
A quel punto, e solo allora, le dimissioni del presidente Mattarella prefigurate da Silvio Berlusconi e legate all'approvazione di una riforma costituzionale «sarebbero una ovvietà - dice Michele Ainis - perché la legge
potrebbe stabilirne l'immediata decadenza, o meglio prevedere che entri in vigore nella legislatura successiva. Ma non so se Mattarella accetterebbe un interregno». Dallo psicodramma allo shakesperiano tanto rumore per nulla.
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