Gli italiani riassaporano la libertà di una vita quasi normale. Ritornano nei ristoranti intristiti da tavoli radi e distanziati, vanno ad acquistare sneakers e bermuda con la mascherina sul viso, tornano timidamente in ufficio tra mille precauzioni. Si sentono più sollevati anche se preoccupati per la ripresa economica. E intanto mettono la testa su un'estate complicata da gestire sul piano professionale e familiare.
Anche un cittadino scelto non a caso, l'avvocato Giuseppe Conte di Volturara Appula, professione temporanea presidente del Consiglio dei ministri, si è sbizzarrito a formulare piani ambiziosi per la ripartenza. Ma qualcosa gli è andato storto. Può capitare quando ti trovi a guidare un governo nelle vesti di un esterno della politica che spera nella prosecuzione di un momento magico solitamente effimero: quello di sostituirsi in prima persona ai partiti che compongono l'estemporanea maggioranza giallorossa. E allora il brivido dell'onnipotenza e l'autoesaltazione nell'apporre la propria firma a decreti da plenipotenziario svaniscono come il sole durante i temporali di giugno.
La presenza ininterrotta di Conte alla guida del governo, prima con la Lega e poi nel Pd, non è casuale come potrebbe apparire. Tutto nasce dalle elezioni del 2018, con un pareggio collettivo di coalizioni e partiti, che ha espresso come punto di equilibrio un leader non leader, pescato dal Palazzo per fare funzionare la baracca in qualche modo. Poi possono verificarsi i «cigni neri», quei fatti imprevedibili dagli effetti devastanti che stravolgono le regole del gioco senza discussioni intermedie. Se il Covid19 ha trasformato il mondo, figurarsi se non ha spostato per tre mesi il baricentro della guida del Paese.
Ricordiamo il Conte intimidito e compìto che alla Camera, inamidato con la pochette al banco del governo, chiede timidamente a Di Maio il permesso a dire una certa cosa, prendendosi un no secco come il bambino che strattona il papà dinanzi a una vetrina di giocattoli. E come dimenticare il Conte vagamente imbarazzato, affiancato da un Salvini scravattato e radioso che l'ha convinto a esibire alle telecamere un foglio A4 fresco di stampante con lo slogan #decretosalvini sicurezza e immigrazione. Immagini eloquenti di un incerto amministratore delegato ostaggio di azionisti rissosi, neutralizzatisi a vicenda tra veti e ripicche. Spesso gli uomini non riescono a modificare l'impronta primaria conferita loro dal destino. E anche al presidente del Consiglio tocca fare un passo indietro dopo l'inebriante stagione dell'«uomo solo al comando».
Con il pretesto della passerella mediatica degli Stati generali, il Pd lo ha disarmato. Stagione che vai, carceriere che trovi. Chissà se i ceppi messigli ai polsi da Zingaretti sono più chic e democratici degli schiavettoni di Salvini e Di Maio.
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