L'ordinanza del commissario straordinario per l'emergenza Covid-19 Domenico Arcuri, e ancora prima l'annuncio del premier Giuseppe Conte domenica sera, che fissa a cinquanta centesimi il prezzo di vendita al pubblico delle mascherine, ha scatenato un putiferio. Soprattutto perché l'imposizione del prezzo è stata decisa senza consultare le categorie e le stesse fabbriche che hanno convertito la produzione, in accordo con lo stesso commissario. Consulenti, titolari di fabbriche, importatori, farmacisti: tutti concordi sul fatto che 50 centesimi non sia un prezzo sostenibile. «Il costo medio per la sola produzione di mascherine chirurgiche certificate, cioè considerate dispositivi sanitari, si aggira sui 40 centesimi. È quindi impensabile vendere al consumatore mascherine a 50 centesimi, un prezzo che non tiene conto del passaggio dal grossista e dal rivenditore», spiega Rosalba Calabrese, titolare di un'azienda di Quarrata nel Pistoiese che ha adattato la produzione di macchine da cucire per confezionare le mascherine. «Un prezzo equo di vendita finale potrebbe essere un euro, non meno di 90 centesimi. Questa mattina - racconta - ci sono stati cancellati gli ordini per le nostre macchine e le aziende convertite minacciano di bruciare la produzione, piuttosto che vendere i loro prodotti a quel prezzo». Così la vicepresidente di Confcommercio, Donatella Prampolini ha sottolineato che «con le attuali dinamiche di mercato il prezzo massimo di 50 centesimi è una cifra che non sta né in cielo né in terra». Le aziende hanno in carico le mascherine a un prezzo maggiore e chiede di rivederla portandola almeno a 60 centesimi. «Altrimenti - spiega - effetto immediato sarà che smetteremo di importarle. Intanto molte aziende hanno bloccato vendite e ordini».
Il mercato dei dispositivi di protezione corre su due binari: interno grazie alla conversione della produzione delle nostre fabbriche ed estero, con l'importazione. La produzione interna è insufficiente. Secondo Matteo Oriani, consulente per le relazioni istituzionali ed esperto di normative, ci sono diversi problemi nel decreto. «Innanzitutto chi ha comprato le mascherine le ha acquistate a un prezzo più alto. A Pasqua su un ordine dalla Cina di 250mila pezzi una singola mascherina costava 40 centesimi, 32 per acquisti superiori a un milione di pezzi». E la Cina, come è noto, chiede il 50 per cento del pagamento all'ordine e il resto a sdoganamento avvenuto, quindi molti importatori hanno dovuto anticipare la cassa. «All'ordine va aggiunto il costo del trasporto aereo, passato da 4 dollari al chilo a 16 dollari. Non solo - continua - l'Italia continua a imporre dazi al 6,7 per cento, nonostante l'Europa abbia dato l'autorizzazione alla cancellazione». Facendo due conti: 50 centesimi sono un prezzo imposto su una merce che fino a due giorni fa è costata di più. E se i farmacisti, grazie all'accordo siglato nel pomeriggio tra il commissario Arcuri, l'Ordine, Federfarma e Assofarm, «avranno un ristoro e assicurate forniture aggiuntive tali da riportare la spesa sostenuta, per ogni singola mascherina, al di sotto del prezzo massimo deciso dal Governo» così non sarà per gli importatori e i grossisti, o appunto le aziende che le producono, per forza di cose, a un costo maggiore. Tanto per dare l'idea il costo dei macchinari è passato da 70mila euro a 130mila euro, che con le tasse lievita fino a 150mila euro. Raddoppiati anche i costi dei tessuti. «Con il business plan modificati il rischio è che saltino le aziende e gli importatori - conclude Oriani - e che in Italia non si trovino più dispositivi».
«Un governo serio non può scherzare sulla pelle degli imprenditori italiani che in un momento di emergenza hanno fatto una scelta importante per il bene della Nazione», commenta Alessandro de Chirico, consigliere milanese di Forza Italia.Fatto l'accordo rimane il nodo dell'Iva: «È imprescindibile abbassare l'Iva che oggi è al 22 per cento, come un bene di lusso», attacca Andrea Mandelli, presidente della Federazione dell'Ordine dei farmacisti.
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