Sarà che essere impegnato su mille fronti di guerra dev'essere molto stancante. O il tour-de-force Roma-Varsavia-Roma, o il complicato smaltimento di rabbie represse. Sarà quel che sarà, ma la bulimia mediatica del ministro Salvini ieri ha toccato vette preoccupanti e tali da indurre effetto contrario a quello sperato. Ovvero che la botta del vertice dell'altra notte sia stata davvero dura da assorbire, e che non c'è cinguettio capace di farla dimenticare, persino ai militanti. Dire a mezzanotte e tre quarti, come ha fatto Salvini all'uscita dal vertice di Palazzo Chigi che l'aveva appena sconfessato, «sono molto soddisfatto» non tramuta una sconfitta una vittoria, un'incazzatura in onda di baci all'umanità intera. Peraltro il titolare dell'Interno, sorriso forzato e borse sotto gli occhi, s'è rivisto a cinguettare di buona lena già alle 8,33, dal balconcino della cucina di casa (e non senza inviare baciotti persino al bistrattato Baglioni della sera prima). Insomma, come la giri o la volti, e per quanti temi di sfide Salvini ieri abbia potuto toccare, come un criceto impazzito nella ruota, l'impressione è che se la forzatura voleva dimostrare «qui comando io», si è trattato di un brusco risveglio. Persino i sindaci anti-dl sicurezza se ne sono accorti, invitando Salvini a bere camomilla piuttosto che caffè.
Alla fine perciò, è corretto parlare di un ripiegamento su una linea che si è dimostrata ancora una volta più mediatica che reale, considerato che il premier Conte aveva promesso alla Ue di prendere una dozzina di migranti e così è stato. Sia pure nell'ipocrita versione «li affideremo alla Chiesa Valdese», che non è uno Stato sovrano (come la Santa Sede in un'occasione precedente), bensì una benemerita organizzazione ecclesiale che opera in territorio italiano e usufruisce di servizi italiani. Così, dopo aver parlato nottetempo di «passi avanti», di «ricollocamenti», di «compattezza del governo», di «eventuali nuovi arrivi solo a costo zero» e rivendicato il ruolo che gli sta sfuggendo di mano («l'immigrazione la gestisco io»), ieri sera era pure da Vespa in tivù a spiegare e spiegarsi. «Con Conte ci siamo chiariti, c'è stato un misunderstanding, non l'ho ritenuto uno sgarbo... Lui prova ad andare d'accordo con tutti, se dovessi andare d'accordo con tutti non farei nemmeno la metà di quello faccio. Rispetto il lavoro degli altri, chiedo che gli altri rispettino il mio... Mi si lasci lavorare: lunedì incontro Avramopoulos al Viminale, la Ue faccia il suo dovere».
La verità è che aver tanto drammatizzato una vicenda minore e tutto sommato «eccezionale», come più volte sottolineato da Conte, stavolta non ha giovato al capo leghista. E pretendere un vertice «chiarificatore» nel cuore della notte per far arrivare in Italia una decina di migranti non è neppure degno di un Paese serio. Il furore mostrato l'altra notte da Salvini, ancora in circolo ieri, era dunque motivato dalla netta percezione d'essere stato raggirato: non tanto da Di Maio, che ha scelto un profilo basso e di appoggio alle difficoltà leghiste, quanto dal premier che ha seguito prassi consolidate e confermato impegni già presi. La salviniana linea del rigore sull'immigrazione resterà pure, sulla carta, come linea-guida. Ma nei fatti il potere straripante del ministro è dovuto scendere a più miti consigli.
Salvini ora spera in rivincite elettorali, ma fa di necessità virtù. E giura: «Macché crisi, il governo andrà avanti nonostante gli uccelli di malaugurio, anche se la Lega diventa primo partito». Credergli non viene tanto facile.
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