Il primo segnale di «risveglio», Emmanuel Macron prova a darlo all'Eliseo, ricevendo 302 sindaci di banlieue segnate dal caos: 4mila fermi in sei giorni, 1.300 minorenni, un miliardo di euro di danni (quattro volte più della crisi del 2005). Ma i primi cittadini, pur apprezzando l'iniziativa - tranne il neogollista di Bry-sur-Marne, Charles Aslangul, che dà forfait spiegando che Macron dovrebbe essere al lavoro per la riconquista dei quartieri ostaggio di «racaille, spacciatori e islamismo» e non fare conferenze in stile «terapia delle coccole» - puntano il dito su una situazione nota già da «parecchio tempo».
I sindaci provano a dire al presidente, che in sei anni ha investito (o «bruciato» secondo i punti di vista) miliardi su palazzoni popolari in periferia e molto poco su chi li abita, che la questione da lui evocata, responsabilizzare i genitori dei baby casseur con una sorta di «tariffa minima da pagare alla prima stupidaggine» dei figli, non è la soluzione; e che i social non possono essere presi come scudo per nascondere problemi che chi vive a due passi dai territori perduti della République conosce ogni giorno: traffico di droga, gang, mancata assimilazione; pezzi di Paese in cui adolescenti spesso figli d'immigrati rifiutano lo Stato e le sue regole.
Il presidente concede: «Non bisogna rifare le stesse cose che facciamo da decenni», ma si smarca dall'idea neogollista della sospensione dei sussidi alle famiglie coinvolte. Si limita ad annunciare una legge urgente per accelerare la ricostruzione: «Il picco (del caos, ndr) sembra essere alle spalle, dobbiamo raggiungere l'ordine durevole ma resto prudente per i prossimi giorni e settimane». Tutti d'accordo sulla malattia, ma la cura? Rivolte in calo, assicura la premier Borne in aula, sotto il fuoco del question time sulle banlieue. Accuse pure dai sondaggi: il 76% dei francesi ritiene che l'esecutivo non abbia ben gestito la situazione (Elabe).
Il ministro dell'Interno ribatte ai lepenisti, che vedono nell'immigrazione incontrollata e nel diritto d'asilo un po' lasco i detonatori delle rivolte: «Non bisogna confondere i piani - dice Darmanin - i teppisti sono delinquenti, non stranieri, meno del 10% dei fermati lo è». Borne accusa invece la gauche di giustificare sempre la violenza e rifiutare l'appello alla calma: «Voi della France Insoumise così uscite dal campo repubblicano». I mélenchonisti attaccano invece la legge del 2017 (post attentati). Dicono che ha prodotto 5 volte più morti per rifiuto di fermarsi all'alt. Ma l'episodio di martedì scorso a Nanterre è complesso. L'inchiesta sostiene infatti che l'agente che ha ucciso il 17enne non avrebbe gridato «ti sparo in testa», ma «spegni (il motore, ndr), mani dietro la testa». E per 9 francesi su 10 la morte di Nahel è stata solo un «pretesto». Il 71% dà fiducia alle divise (+2 punti). E il capo della polizia risponde pure all'Onu che chiedeva di vigilare sul comportamento degli agenti: «Non c'è un problema di razzismo», taglia corto Laurent Nunez. È invece bufera sul prefetto dell'Hérault, Hugues Moutouh: «Sedare i ragazzini in rivolta? Due schiaffi e a letto! Se vengono cresciuti come l'erba selvatica, non dobbiamo stupirci delle sassate alla polizia». In Francia le punizioni corporali sono vietate.
Ieri 120 maggiorenni condannati.
Ma poi? Ritorno alla calma o al silenzio sui quartieri popolari? I primi cittadini vanno in pressing, e alla fine Macron ammette errori: anzitutto l'aver seppellito il piano banlieue che nel 2018 gli consegnò Jean-Louis Borloo, ex ministro di Sarkozy. Il mea culpa è senza seguito. Le urgenze, secondo Borne, sono «ripristinare l'ordine ed evitare l'impunità».
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