«Basta toccare e plin plun plan» ha detto con una certa dose di scaramanzia il presidente della Regione, Roberto Maroni, prima di votare senza incidenti sul tablet a Lozza, il paese del Varesotto in cui vive. Era il debutto italiano del voto elettronico, in novemila seggi.
A Matteo Salvini è andata un po' peggio...
«Una macchina nel suo seggio non funzionava, ma ce n'erano altre due, quindi alla fine è andata bene anche lì. È stata una soddisfazione che il sistema abbia funzionato bene, temevo non le macchine ma il fattore umano. Ammetto di aver dormito poco la notte tra sabato e domenica».
Ora che non deve fare Maga Magò nel predire risultati e la campagna elettorale è finita, può dirci sinceramente se è soddisfatto?
«Sì, perché avevo previsto il 34 per cento, lo abbiamo superato ampiamente e in alcuni comuni eravamo oltre il 50% già alle 19, ad esempio nella Bergamasca a Martinengo o Palosco».
Come si spiega la differenza di affluenza con il Veneto? Zaia ha spopolato?
«Io ho ottenuto il risultato in cui speravo: tre milioni di lombardi con noi pesano, la percentuale mi interessa fino a un certo punto. Questo è il valore del referendum. Sappiamo che il Veneto sui temi dell'autonomismo ha una sensibilità molto forte e non avevo dubbi, anzi facevo il tifo perché superasse il 50%».
Addirittura il tifo?
«Non c'era competizione e adesso possiamo fare la partita insieme. La spiegazione della differenza non è politica ma etnica. I veneti si sentono più popolo che non i lombardi. Qui il referendum è sentito come interesse, ci serve perché ci dà più soldi. Lì è un po' come per i Catalani».
Ha già parlato con Salvini? Non sembravate in particolare sintonia ultimamente. E con Berlusconi?
«Io e Salvini ci vediamo domattina (oggi per chi legge, ndr) perché voglio concordare con lui le prossime mosse. Non esiste alcun conflitto politico e personale tra me e lui. Sentirò anche Zaia. Berlusconi non l'ho sentito ma immagino sarà soddisfatto perché è entusiasta del referendum. Il percorso che parte ora durerà due settimane».
Vale ancora l'invito a Giorgio Gori e agli altri sindaci del Pd a trattare insieme?
«A maggior ragione perché l'invito dei vertici del Pd a disertare in massa non è stato accolto. Mi dicono che il paese del ministro Martina è stato quello in cui si è votato di più. Voglio sentire anche i Cinque stelle».
Milano ha espresso un voto in controtendenza. E il sindaco, Sala, che si era schierato per il sì, non ha votato. A parte le ragioni storiche, vede motivi di attualità?
«Farò verifiche per capire se è un disinteresse perché Milano sta vivendo una fase di sviluppo così significativa che la nostra richiesta di maggiori risorse non interessa».
A Milano però ci sono anche grandi sacche di povertà e timori per l'unità nazionale e la mancanza di solidarietà.
«Questa trattativa verrà fatta nel quadro della solidarietà con le altre Regioni e non ci sarà alcun rischio catalano».
Il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, ha detto che nessun Paese europeo riconoscerà la Catalogna come Paese indipendente. Concorda?
«Il nostro quesito è un po' un manifesto politico, a differenza di quello del Veneto. Noi chiediamo competenze e risorse nel quadro dell'unità nazionale. Non si pone la questione della Lombardia come la Catalogna. Poi penso che se la Catalogna vuole diventare il ventinovesimo Stato europeo, l'Europa non può dire no a prescindere».
Le piacerebbe tornare a fare il ministro?
«Ho chiuso con Roma. Ho passato lì ventuno anni. Ormai il reato è prescritto. Vorrei continuare a fare il presidente della Regione nella mia terra».
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