«Ein mann, ein traum». Chi cercasse di tradurre alla buona il titolo del lungo reportage che gli ha dedicato Galileo, seguitissimo programma della tv tedesca Pro Sieben, finirebbe fuori strada. Un uomo, un trauma? È ben vero che nel suo luna park privato di Nervesa della Battaglia (Treviso) - in realtà quanto di più pubblico esista in Italia - rischi, se non presti attenzione, una visita dall'ortopedico. Ma questa è solo la storia di Bruno Ferrin e di un sogno, traum appunto. E, come in tutte le storie a lieto fine, «in quasi mezzo secolo non s'è mai fatto male nessuno, grazie a Dio». Qualche storta, un braccio rotto. «Gli incidenti sono parte della statistica. I bimbi cascano anche all'asilo, no? Magari arriva l'ambulanza per niente e io manco me ne accorgo, la chiamano direttamente i visitatori con il telefonino. Comunque mai niente di grave. La sicurezza prima di tutto. Le pare che costruirei un gioco perché la gente ci si ammazzi? Cesserebbe lo scopo». Cioè il gioco.
È così che Ferrin prende la vita: come un gioco. Che nasce da un sogno: «Cade un ramo, frulla in cielo un uccello, rotola giù a valle un sasso... Le idee mi vengono così». Almeno una all'anno, a volte di più: ed ecco pronte le nuove giostre. Ne ha già costruite con le sue mani la bellezza di 45, una più emozionante dell'altra. «Ne ho in programma altre due, se il Padreterno mi concede una proroga, perché gli anni sono già 78, caro el me siór, compiuti il 1° febbraio». L'ultima attrazione, inaugurata da poco, l'ha chiamata il pendolo. È anche l'unica che ha parzialmente bisogno di forza elettrica, mentre in tutte le altre basta e avanza la forza umana per far muovere pesi, contrappesi, cremagliere, carrucole, pignoni e funi metalliche: «Serviva un motore da 7 cavalli che portasse fino a 30 metri di altezza il vagoncino su cui trovano posto 6 persone. Questione di 90 secondi, dopodiché si spegne e la forza di gravità e la velocità fanno il resto. Il carrello scende in picchiata a 100 chilometri orari e per inerzia risale 30 metri dalla parte opposta. Non spendo più di 90 euro l'anno per la bolletta dell'Enel». Dove non basta la fisica, sopperisce il fisico: è il caso di monopattino, liane, pedana elastica gigante, rulliera, scivolo a tre piste, girotondo, ruota pedonale, uomo vitruviano, percorso di guerra, bascula, altalene, catene, teleferica, campane e di tanti altri divertimenti che richiedono buoni muscoli negli arti superiori e inferiori.
Si chiama osteria Ai Pioppi ma ormai s'è fatta nome come «la Gardaland dei poveri». Per un motivo molto semplice: si entra senza pagare il biglietto. Sabati e festivi, dall'ultima domenica di marzo a fine novembre, dalle 15 alle 19. In cambio, Ferrin chiede solo di non portarsi la merenda da casa e di consumare semmai, ma senz'obbligo alcuno, il panino con la soppressa della casa (1,50 euro). Oppure una braciola (5 euro), le lumache ai funghi o il baccalà alla vicentina (8 euro), che sono in assoluto i piatti più costosi. Nel 2014 sono arrivati più di 50.000 visitatori, compresi due sessantenni, marito e moglie, con il padre di lui, abitanti a New York. «Erano in vacanza a Venezia. Si sono fatti portare da un taxi. Il vegliardo aveva più di 90 anni. Mi ha raccontato che nel 1943 sbarcò a Salerno con la 5ª Armata americana per liberare il nostro Paese. Alla fine erano tutti entusiasti della giornata di svago».
Il mistero è come tre statunitensi siano finiti, al pari della troupe di Pro Sieben, di un inviato del mensile tedesco Gala Men e dei giornalisti della tv di Stato austriaca e di una radio di Berlino, in un parco sconosciuto agli italiani. Pare che il merito sia di un regista brasiliano, Luiz Romero, che studiava nella vicina Fabrica, centro di ricerca sulla comunicazione del gruppo Benetton. Trascinato qui per caso da alcuni amici italiani, s'è talmente divertito che ha proposto alla commissione interna di Fabrica di realizzare un cortometraggio su Ferrin. «Prima mi ha sottoposto a un provino, poi è stato qui quattro giorni a filmarmi con il collega Coleman Guyon». La notizia è finita sul Daily Mail e su Fast Company, rivista americana di design e tecnologia. Youtube e Vimeo hanno fatto il resto.
Servono studi complicati per costruire queste montagne russe.
«Ah, mi no' so. G'ho solo la quinta elementare».
Avrà fatto calcoli e rendering al computer.
«Non sono capace né di scrivere né di disegnare. Il mio computer è tutto qui». (Si passa una mano sulla fronte). «È venuta una scolaresca di un istituto tecnico di Mestre, con i professori. Volevano accertare perché le mie giostre funzionassero. Secondo loro non era possibile».
Vuol farmi credere che le ha costruite senza elaborare alcun calcolo?
«Ciò, no' son miga mato! Io l'attrazione ce l'ho in testa, me la sogno di notte per mesi. Poi vado da Paolo Schiavetto, disegnatore tecnico di Nervesa della Battaglia, e gliela spiego. Lui la progetta con il computer. Io allungo, accorcio, modifico, giro, capovolgo, raddrizzo, stando lì con lui davanti al monitor. Dopodiché lo studio ingegneristico Roberto Scandiuzzi di Treviso verifica portate, spinte e tutto il resto. Solo a quel punto mi metto in officina e comincio a costruire».
Non sogna mai un vagoncino che deraglia dai binari e precipita?
«Eeeh, me lo sogno sì! Però mi arrovello più di un anno per trovare le soluzioni che lo evitino. Non esistono giostre pericolose, ma solo giostre usate male. Prenda lo scivolo a tre piste. Si scende a 60 chilometri orari. In caso di pioggia, lo chiudo. Guai se qualcuno lo usasse quand'è bagnato: il tappetino sotto il culo perde aderenza, come le gomme delle auto con l'aquaplaning. Per precauzione, ho messo delle reti a fine corsa, così l'eventuale disobbediente non finisce su un albero, come accadde a un ragazzo che per fortuna se la cavò senza danni. La sicurezza innanzitutto. Ho anche stipulato con l'Unipol una polizza che mi costa 3.000 euro l'anno».
Insomma, non capisco, questo parco è a norma oppure no?
«Chi può dirlo? Nel 2000 mi convocano in Comune: “Deve mettersi in regola con le leggi europee”. E quali sarebbero? Esiste un libro alto così delle norme Uni, ma riguarda le attrazioni elettriche. Qui tutto funziona a forza di braccia. La sicurezza dipende da ciò che stabilisce l'ingegner Scandiuzzi, incaricato dei collaudi. È lui a omologare ogni singola costruzione. La manutenzione è continua, sono al lavoro per controllare e riparare tutti i giorni dell'anno, anche quando il parco è chiuso».
Ma lei che competenze tecniche ha?
«Mi sono arruolato a 17 anni in Marina. Ho prestato servizio per un lustro come meccanico armarolo sul cacciatorpediniere Aviere e sulle navi scorta Aldebaran, Andromeda e Altair. Ma non era la mia vita. Le stellette mi pesavano. Perciò sono andato a lavorare con mio padre nel bar Verdi di Treviso. Poi dal 1960 al 1980 ho fatto il rappresentante di lieviti per pane. Siccome i fornai lavorano dalle 4 di mattina a mezzogiorno, mi alzavo alle 3 di notte per andarli a trovare. Mi restava il pomeriggio per arrotondare. Nel 1969 chiesi a mia moglie Marisa: e se aprissimo una frasca? Sarebbe un'osteria di campagna. “Provémo”, mi rispose lei. Mi misi a battere il Montello, fin quando non adocchiai questo pioppeto sulla collina fra Nervesa e Santa Croce e affittai il terreno».
Non vedo pioppi.
«Ne restano solo cinque. In 45 anni ho messo a dimora migliaia di altri alberi: aceri, olmi, carpini neri e bianchi, faggi, castagni, betulle, platani, pisoère».
Pisoère?
« Celtis australis, noto anche come bagolaro o spaccasassi. Arriva a superare i 400 anni di vita. In ottobre e novembre continuo a piantare stuzzicadenti alti non più di 1 metro. Li tolgo dal mio stesso bosco e li metto dove voglio io, in un certo ordine, così crescono alti alti».
Torniamo alla frasca.
«Domenica 15 giugno 1969, con il cuore in gola, aprii. Avevo comprato 6 chili di salsicce, una soppressa, una damigiana di bianco e una di rosso. Arrivarono due ragazzi, sul quintale e mezzo di peso ciascuno: “Cos'è 'sta roba?”. Un'osteria. “Ma se ieri non c'era niente!”. E oggi c'è. Dopo tre ore non mi restava più neanche un pezzo di pane. Finito tutto».
È sempre in affitto?
«No. Nel 1973 firmai una montagna di cambiali e comprai i 30.000 metri quadrati. Ricordo che quel giorno mi dissi: finalmente sono sul mio! Nella vita non avevo mai posseduto nulla. Sa, sono figlio di un poveretto scampato alla ritirata del Don e tornato a piedi dalla Russia».
E pensò di piantare sul suo anche qualcosa di metallico.
«Un'altalena per i bambini. Servivano quattro ganci. Andai da un vecchio fabbro per farmeli fare. “No' go tempo par 'ste monade, lì c'è il saldatore, fa' da solo”, mi liquidò. Tornai a casa la sera con la pelle incandescente e gli occhi che mi bruciavano. Restai sveglio tutta la notte. Ma avevo trovato la mia strada».
La saldatrice, l'officina.
«Esatto. Il primo fu uno scivolo di 3 metri. I bambini si divertivano come matti. Ragionai: se fosse più lungo, si divertirebbero il doppio. E così ne costruii un altro. Dopo qualche mese ero arrivato al terzo: 30 metri. Adesso quello a tre piste ne misura 60».
Non si accontenta mai.
«L'ha detto. Fino al 1984 accanto ai giochi c'era una baracca sulla terra battuta. Poi ho tirato su una stanza con cucina. Nel 1992 l'ho ampliata. Nel 2004 è diventata un ristorante per 130 coperti, con 1.200 posti all'esterno, che dà lavoro anche alle mie due figlie. Vent'anni fa mi fecero una buona offerta per vendere. Ma non potrei mai. È la mia vita».
Come riesce a far pagare 50 centesimi un caffè?
«Prezzo politico. È il caffè della mia infanzia. Metto a bollire 15 litri d'acqua e 1 chilo di polvere nella caldera, poi filtro con una canevassa di lino e tengo a bagnomaria in una caldaia di ghisa del 1850 che serviva per sterilizzare i ferri chirurgici. Da bambino in casa c'era sempre il pignattino pronto sulla cucina economica. Ma era caffè d'orzo, annerito tuttalpiù con la miscela Leone o con l'estratto olandese Elefante».
Quanto ha investito nel luna park?
«Non posso dirglielo, altrimenti la Marisa chiede il divorzio».
Suvvia, a spanne.
«Solo il pendolo pesa 50 tonnellate. Calcoli che 1 chilo di ferro costa 1,10 euro».
Fanno 55.000 euro.
«Di metallo. Ci aggiunga la zincatura a caldo, le mie ore di lavoro e tutto quello che ci va dietro».
Ma non si stanca, alla sua età?
«Le forze calano. Prima g'ero un treno, 'desso son 'na tradóta. Però l'entusiasmo resta quello del primo giorno. Con le idee che ancora ho per la testa, mi servirebbero almeno altri 50 anni».
Perché fa tutto questo?
«Muore una persona cara. Soffri tremendamente, piangi, ti disperi. Con il passare del tempo, il dolore si attenua fino a scomparire. Dopo 10 anni, nessuno si ricorda più che è esistita».
Vuole farsi ricordare dalla gente che viene qui a divertirsi?
«Penso che sia questo il motivo, sì».
È mai stato a Gardaland?
«Eh, caspita, due o tre volte. Aaah, tuta 'n'altra roba, siór! Avrei tanta voglia di tornarci, ma non trovo il tempo».
Quali attrazioni ha provato?
«Anche le montagne russe Blu Tornado, se è per quello. Son smontà stravanìo. Sì, insomma, frastornato».
Che giochi ha avuto da bambino?
«Durante la guerra c'era solo la mòmola. Si prendeva la rincorsa e si saltava in groppa a tre o quattro compagni, piegati in avanti e aggrappati a un palo. Se chi stava sotto cedeva, la partita era persa. Oppure si giocava al pìto».
Il tacchino?
«Ma no, è un piccolo pezzo di legno affusolato che si fa saltare in aria con una paletta e poi si ribatte al volo per scagliarlo lontano».
Ho capito, la lippa. In ogni provincia prende un nome diverso: s-cianco, ciáncol, cirimèla, pandolo, cibbè, ghinè, giaré, pìndul.
«Oppure si faceva correre per le strade un serción de bicicleta».
Ma la Befana non le portava nulla?
«Un pezzo di carbone dolce, un'arancia, tre caròbole (carrube, ndr) e una brancata di stracaganasse, che sarebbero le castagne secche: a furia di masticarle, le ganasce ti fanno male».
Che cosa cercano gli adulti nei suoi giochi?
«Di tornare bambini».
E nel pericolo?
«L'adrenalina, la sfida con sé stessi. È la natura stessa che ci spinge a osare sempre di più. Sentiamo fino all'ultimo giorno il bisogno di superarci. Ci serve per dirci da soli quanto siamo bravi».
(753. Continua)
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