Previti: "Dalla mia gogna agli arresti di Toti. Giustizia troppo vicina alla politica"

L'ex ministro e senatore di Forza Italia Cesare Previti: "L'alleanza pm-Scalfaro contro Berlusconi? L'avevamo intuito... Il caso ligure fuori dalle regole del diritto"

Previti: "Dalla mia gogna agli arresti di Toti. Giustizia troppo vicina alla politica"

Cesare Previti ha quasi novant'anni. Avvocato di lungo corso, è stato uno dei più importanti collaboratori di Silvio Berlusconi dagli anni Settanta fino a quando nacque Forza Italia. Ha fatto il parlamentare, il ministro, poi fu preso di punta dalle procure e da loro messo in croce. Ne porta ancora le cicatrici. Ha conosciuto anche una cella di Rebibbia. Ora si scopre che l'attacco della magistratura a Berlusconi e a lui, nel 1994, partì in contemporanea - non possiamo noi dire se coordinato o no - con la spinta dell'allora presidente Oscar Luigi Scalfaro: parola del cardinale Camillo Ruini.

Ed eccolo Previti. Seduto alla scrivania del suo studio al quartiere Prati, a Roma. Senatore, che effetto le hanno fatto le rivelazioni di Ruini?

«Per me non è una scoperta. Lo avevamo intuito. Noi sapevamo che Scalfaro era una persona distante da noi. Però ci trattava apparentemente con rispetto. Così Berlusconi propose il mio nome come ministro della Giustizia. Io avevo un progetto di riforma molto profondo, che avrebbe posto fine alle deviazioni di Mani pulite che poi, negli anni, si è capito che si è trattato di un vero colpo di stato. La magistratura si era comunistizzata. Io volevo ristabilire il diritto, ma non perché fossi fascista o cose del genere, solo perchè ho sempre pensato che la giustizia è un pilastro della società: così non poteva andare».

Sembrava fatta. E invece?

«Ricordo che ero a casa e lavoravo per decidere cosa fare nei primi giorni da ministro. Avevo chiaro il disegno. Lavoravo gomito a gomito con un magistrato, di altissimo livello, che avevo convinto a fare il capo di gabinetto, e scrivevamo, scrivevamo...».

Ci può fare il nome. Era un magistrato di destra?

«Si stupirà: era un noto comunista da sempre. Serio, perbene, competente, convinto, onesto. Ma era comunista. Non dirò il suo nome».

E poi cosa è accaduto?

«Verso le tre e mezzo mi telefona Berlusconi e mi dice: c'è il veto di Scalfaro, tu vai alla Difesa e Biondi (l'allora segretario del partito liberale) va alla giustizia».

Come la prese?

«La cosa mi amareggiò non poco, perché mi apprestavo a un compito assolutamente innovativo. Sapevo che avrei potuto dare un grande apporto alla giustizia. Non nego che mi dispiacque molto».

Quali riforme pensava fossero necessarie in quel momento particolare?

«A parte la separazione delle carriere, volevo fare in modo che la magistratura fosse il più lontano possibile dalla politica. Ciò che sta cercando di fare il ministro Nordio».

Come si è trovato alla guida del ministero della Difesa?

«Benissimo. Credo molto nel ruolo della Difesa. È stato il periodo migliore del mio percorso politico».

Quanto manca Berlusconi attorno ai tavoli della pace?

«Molto. Non c'è nessuno al suo livello. Berlusconi è stato un grande. Fu massacrato dai giudici e dai comunisti».

Come iniziò tutto?

«Iniziò quando governavamo da pochissimo. Avviso di garanzia per Berlusconi. Recapitato a mezzo stampa. Poi l'avviso di garanzia cadde ma la persecuzione continuò».

E lei diventò vittima a sua volta. Si è chiesto perché?

«Io non ho mai fatto niente di male. Mi hanno precipitato addosso una montagna di accuse false. Accuse che cadevano e che venivano sostituite da nuove accuse. Così mi sono trovato indagato e aggredito. Da tutti. Le tv, tutti i giornali avversari del governo. Una gogna che credo abbiano subito in pochi».

Come ha vissuto quei momenti?

«Ho dato tutto me stesso per difendermi da innocente quale ero. Alla fine ho ricavato poco ma sono stato aiutato oltre che dalla mia ineguagliabile famiglia, dall'indulto, peraltro promosso dal governo di sinistra, che ha permesso di tramutare la mia condanna in servizi sociali».

Lei ricorda chi l'attaccò più furiosamente?

«Il quotidiano Repubblica. Affidò al professor Cordero l'incarico di non darmi pace. Per molti mesi mi ha attaccato tutti i giorni».

In cosa consistevano gli attacchi?

«Nel cancellare il mio diritto a un processo giusto e nell'enfatizzare fatti non veri».

Ma qualcuno prese le sue difese.

«Solo Pannella e e il presidente Cossiga. Erano uomini eccezionali. Ma non bastò a cambiare il corso del processo. Fu una burla, le potrei documentare che mi condannarono con niente in mano».

E finì in carcere.

«Sì, per quattro giorni a Rebibbia. Mi vennero a trovare oltre centoventi parlamentari tra Camera e Senato. Difficile in soli quattro giorni ricevere un'ondata di affetto così grande. Avevano recepito la follia del mio processo. Il direttore del carcere ne rimase impressionato. Venivo svegliato tutte le mattine da Antonio Tajani che mi portava la colazione».

Sul caso Toti cosa pensa?

«Il caso Toti per quel che è stato detto è fuori da ogni regola del diritto. L'accusa non è identificata e nonostante ciò sta agli arresti domiciliari. Cosa dovrebbe fare un presidente di regione se non intessere normali rapporti di vicinanza con i più importanti personaggi dell'economia?».

Volano parole grosse, si parla apertamente di ricatto da parte dei magistrati.

«Lo tengono agli arresti con la speranza che si dimetta senza un'apparente causa che ne motivi la detenzione».

Torniamo a lei. Come è nata l'amicizia col Cavaliere?

«Lui aveva 32 anni. Io 34. Ci siamo incrociati per questioni di affari. La vendita dei terreni dei Casati Stampa. Abbiamo fatto amicizia subito. Nel nostro rapporto la simpatia e il gioco prevalevano sulla relazione professionale».

Che accadde quando Berlusconi scese in campo?

«Io avrei dovuto dedicarmi solo all'azienda. Poi quel giorno del discorso di Silvio tornai a Roma su un aereo con Gianni Letta che mi confessò che il Cavaliere avrebbe voluto che io entrassi anche in politica. Arrivato a Roma gli telefonai dall'aeroporto (fu un'impresa trovare i gettoni) e gli dissi: Guarda che se vuoi che io entri in politica. Non mi fece finire e mi ritrovai senatore. Fu un tripudio di voti in massima parte missini».

Lei è stato iscritto al Msi?

«Sì negli anni del liceo. Ero il segretario dei giovani del quartiere Delle Vittorie. Allora erano tutti di destra i ragazzi del Mamiani. Noi andavamo sempre in piazza, ma per Trieste italiana».

Ha partecipato a scontri?

«Qualche scontro coi comunisti. Poi quando arrivavano i carabinieri a cavallo noi scappavamo».

Era il Msi di Almirante?

«No, di Arturo Michelini».

Lei è sempre stato anticomunista?

«Oddio, e me lo chiede pure? Ha idea di cosa è stato il comunismo? Un delitto».

Come finì col Msi?

«Litigai con Giuseppe Ciarrapico. Perché quelli di Ciarrapico erano fascisti che picchiavano. Io facevo l'intellettuale. Litigammo. Facemmo a botte. Me ne andai. Piu tardi diventammo amici».

Lei ha conosciuto bene Umberto Bossi. Com'era allora?

«Un barbaro, ma intelligente, convinto della secessione. Lui è entrato di forza al governo. Fu fantastico l'incontro tra il barbaro e il missino».

Chi è il missino?

«Gianfranco Fini. Berlusconi li chiamava così: il barbaro e il missino. Si riunirono qui nel mio studio. Fini arriva per primo. Dopo un po' arriva Bossi, mi prende da una parte e mi dice: Io con questo delinquente non ci voglio parlare. È un fassista. Io gli dico: Ma che stai a scherzà? Dobbiamo fare il governo. Insomma, alla fine lo convinco. Entriamo nella stanza dove stava Fini, che tutto sorridente gli va incontro e gli tende la mano. Bossi si gira dall'altra parte e si mette a sedere».

Non gli dette la mano?

«No».

E alla fine?

«Alla fine il governo si fece. Ma i due non si sono mai potuti soffrire».

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