Buchi neri. Due parole per battezzare qualcosa che adesso ci sembra perfino familiare. Il merito è della scienza e un po' anche della fantascienza. Solo che si fa perfino fatica a immaginarli. È qualcosa che ha una massa così densa da curvare lo spazio-tempo, come una palla oscura su quel tappeto che per brevità chiamiamo universo. Se fosse possibile avvicinarsi restando in bilico sul confine, sull'orizzonte degli eventi, l'unica cosa che vedremmo è questa sfera buia che si mangia qualsiasi cosa, compresa la luce. Non sappiamo cosa ci sia lì dentro, di certo massa così concentrata da attirare tutto ciò che ci gira intorno. Una volta caduti al suo interno le leggi della fisica che conosciamo non valgono più. È un mistero.
L'esistenza dei buchi neri era stata prevista da Albert Einstein nella Relatività generale, solo che perfino lui stentava a crederci. La sua teoria li prevedeva, ma la sua immaginazione restava scettica. Il nome Black Hole, adesso così popolare, ha solo 53 anni. È il 1967 quando il fisico statunitense John Wheeler, durante una conferenza, trova un nome semplice e suggestivo. L'indagine e le teorie sui buchi neri è chiaramente precedente. A scommettere davvero sull'esistenza dei buchi neri è stato però il fisico e matematico Sir Roger Penrose. Metà del Nobel 2020 della fisica è suo. Ci ha messo un po' di tempo ad arrivare, visto che ha 89 anni, ma il tempo come si sa è relativo. Penrose sostiene in Dal Big Bang all'eternità che la materia e l'energia si dissolveranno in una grande buco nero, ma da questo universo freddo e disfatto si ripartirà con un nuovo Big Bang. È la teoria dell'eterno universo.
L'altra metà del Nobel va al tedesco Reinhard Genzel e alla statunitense Andrea Ghez. Hanno scoperto qualcosa di straordinario che ci riguarda in qualche modo da vicino.
Al centro della nostra galassia, nel cuore della via Lattea, di cui il nostro sole è una sperduta periferia, c'è un oggetto invisibile ed estremamente pesante che governa le orbite di stelle e pianeti. È un buco nero supermassiccio.
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