Una mostra a Venezia sui 100 anni di Buccellati

"Voglio un gioiello strano". È il 1922 quando Gabriele D'Annunzio entra per la prima volta nel negozio milanese di Mario Buccellati, in via Santa Margherita

Una mostra a Venezia sui 100 anni di Buccellati

«Voglio un gioiello strano». È il 1922 quando Gabriele D'Annunzio entra per la prima volta nel negozio milanese di Mario Buccellati, in via Santa Margherita. Mario non ha neanche 30 anni. Tornato dalla guerra, ha rilevato l'attività degli orafi «Besnati e Beltrame» dove era entrato giovanissimo come apprendista. Orfano di padre a 5 anni, era stato mandato dalla mamma lì a imparare il mestiere. D'Annunzio è già D'Annunzio. Quel giorno è il 2 dicembre. Ventiquattr'ore dopo percorrerà di nuovo quella strada per andare a Palazzo Marino a pronunciare il suo discorso «Per l'Italia degli italiani». Ma la sbirciatina al negozietto che diventerà un impero in cui muove i primi passi il primo Buccellati, è l'inizio di un rapporto che durerà tutta la vita, partito con una richiesta tanto difficile quanto estrosa: la legatura di un vetro che D'Annunzio definisce «marciano». Mario Buccellati ne farà un gioiello che li legherà in un'amicizia fatta di pochi incontri e molte lettere, 83 per la precisione, tutte datate tra il 1922 e il 1936. «Le sue lettere - scrive Buccellati a settembre 1928 - sono una fonte di ispirazione e guida per me nel lavoro che faccio per lui». Il Vate è alla ricerca di «collane allegre» per i suoi tumultuosi affari di cuore, per le sue muse, di oggetti d'argento per il Vittoriale, scatole da fumo per i commilitoni, piccole trousse, tartarughe d'argento che elargiva in dono a chi lo andava a trovare, coppe, medaglie, insegne. Nascono per lui decine, centinaia di anelli, orecchini, bracciali tutti pezzi unici che Mario realizza come fossero ricami. D'Annunzio nel 1936 lo definisce «il Principe degli Orafi». Ed è proprio con questo titolo che a Venezia ha aperto la mostra «The prince of Goldsmith: Rediscovering the classics», una (splendida) retrospettiva che attraversa i cento di una grande storia italiana, dove l'evoluzione è basata su tecniche antiche inalterate nel tempo. Un esempio? Oggi i preziosi di Buccellati sono ancora realizzati da mani artigiane. Ma non tutti possono fare tutto: solo chi ha un'esperienza di 5 anni può lavorare l'argento, ce ne vogliono 10 per l'oro. L'atmosfera, magica, negli spazi di Oficine 800 sull'isola della Giudecca (fino al 18 giugno) è frutto della genialità di Marco Balich e del suo Balich Wonder Studio. Quattro sezioni per 230 creazioni che arrivano dagli archivi Buccellati e da collezioni private. Con un ingresso spettacolare: 4 farfalle, ognuna disegnata da un Buccellati, dal nonno Mario, suo figlio Gian Maria, il nipote Andrea (oggi presidente e direttore creativo) e Lucrezia, figlia di Andrea.

Nella prima sala gli accessori: portasigarette, scatole da fumo, borsette da sera. Quelle galanterie definite da Mario «deliziose inutili delicatezze che formano il corredo prezioso dell'esistenza moderna». Nella seconda ci sono gli oggetti da tavola in argento a tema naturalistico, animali, frutta, boccioli, conchiglie realizzati con tecniche antiche di sbalzo e cesello. La terza è il viaggio nella storia di quei gioielli, tutti pezzi unici, antichi poi modernissimi eppure sempre fedeli al loro dna originario, grazie a quello stile unico e riconoscibile «volutamente mantenuto inalterato nel tempo», come sottolinea Andrea Buccellati. Sarà perchè la creatività è sempre rimasta in famiglia, da Mario per arrivare a Lucrezia, l'ultima generazione. Ognuno fa un passo avanti ma senza perdere l'orma indietro.

I gioielli sono divisi per le loro lavorazioni, le quattro principali tecniche distintive di Buccellati: tulle, pizzo, incisione e incatenature che trasformano l'oro e l'argento in un merletto. È una storia preziosa, incastonata tra pietre e aneddoti. Che inizia proprio con D'Annunzio, come racconta Alba Cappellieri, la curatrice della mostra. Uno, Mario, timido e riservato, l'altro che si autoproclama «uomo del lusso», esteta raffinato. Ma entrambi seppur in modo diverso legati dal culto della bellezza. D'Annunzio grande spendaccione, per evitare di andare in bancarotta, delega ai suoi editori la famiglia Treves di governare le sue finanze. «Io vorrei le perle più belle e più rare - scrive a Mario in una delle lettere per commissionare un nuovo gioiello - ma non si può. Quindi scegliamo le gemme di colore...» È così che arrivano i sutoir e le cosiddette «ombelicali», collane lunghe che lui regala alla sua musa, Eleonora Duse. Ma che vanno (anche) a ruba. Letteralmente. Sembra che la marchesa Luisa Casati in una delle sue visite al Vittoriale ne avesse fatta sparire una. D'Annunzio è divertito, ma anche un po' seccato, in qualche modo le fa arrivare un messaggio per riavere indietro il suo gioiello: «Non ho quello che non le ho donato». Che, invece non è mai stato ritrovato.

In mostra invece c'è il portasigarette in argento inciso con il celebre motto «Io ho quel che ho donato». Mario Buccellati segnava tutto. In un libro ogni oggetto è disegnato, descritto con prezzo e acquirente. Quei preziosi oggi si possono vedere in una mostra che è qualcosa di più di un'esposizione di fantastici gioielli, uno diverso dall'altro, dove la bellezza è anche nell'imperfezione. «Ed è quella che dà l'unicità al prodotto.

Sempre di più quello è diverso da tutto ciò che è sul mercato rispecchierà il vero lusso» dice oggi Andrea Buccellati che a 11 anni aveva già deciso che avrebbe continuato la strada del padre e prima ancora del nonno. «Cosa mi hanno lasciato? L'amore per il mestiere, la passione per questo lavoro e il rispetto per i nostri artigiani». E una storia che continua.

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