Parlarsi non sempre significa capirsi. Né, tanto meno, riconciliarsi. La regola vale anche, e soprattutto, per il segretario di Stato Usa Antony Blinken e il presidente cinese Xi Jinping. L'unico dato rilevante del loro colloquio di mezz'ora, svoltosi ieri a Pechino, è quello di aver rotto il gelo di cinque anni segnati dall'assenza di incontri di alto livello tra le due grandi potenze. Ma per il resto ben poco è cambiato. La promessa di Xi di non fornire armi alla Russia, sventolata come un successo dal Segretario di Stato americano, è la semplice reiterazione di quanto ribadito da Pechino sin dall'inizio dell'Operazione Speciale di Vladimir Putin. Come Blinken ben sa, le eventuali forniture di armi rappresenterebbero un dettaglio irrilevante rispetto ai vantaggi garantiti al Cremlino acquistando gas, petrolio e altre materie che la Russia ha grosse difficoltà a piazzare altrove. Anche sugli altri punti di crisi resta difficile vedere sostanziali cambiamenti. Sulla questione di Taiwan «l'assenza di spazio per compromessi o marce indietro» era già stata ricordata da Wang Li, il capo delle relazioni estere del partito comunista incontrato da Blinken 24 ore prima. Un'inflessibilità ribadita da Xi, quando ha rammentato all'interlocutore che «gli Stati Uniti devono rispettare la Cina e non ledere i legittimi diritti e interessi della Cina». Dunque, nessun passo indietro di Pechino e nessuna concessione da un Segretario di Stato ben lontano dall'ipotizzare concessioni nell'embargo sulle forniture di microchip e al ritorno sui mercati Usa di prodotti hi-tech cinesi.
Dietro questo apparente pareggio sul ring del confronto diretto, l'unico punticino conseguito da Blinken sembrerebbe la disponibilità del presidente cinese a incontrare un rappresentante dell'amministrazione americana di rango inferiore al proprio. Ma nella logica cinese quest'apparente concessione è ininfluente rispetto alla vittoria conseguita nei mesi e nelle settimane precedenti, quando Pechino ha accolto una pattuglia di volti simbolo del capitalismo americano tra cui Elon Musk, Bill Gates e il numero uno di Apple Tom Cook. Un pellegrinaggio in campo nemico interpretato dai cinesi come un esplicito rifiuto della politica di dura contrapposizione impostata prima da Trump e poi da Biden. Un vittoria di non poco conto per una Cina legittimata ad affermare, dal proprio punto di vista, che l'essenza del mondo capitalista americano pretende la continuazione dei rapporti con una super-potenza dipinta, fin qui, dall'amministrazione Biden come l'antitesi della democrazia dei diritti umani e della legalità internazionale. Ovviamente, avvallare i ragionamenti della Cina e plaudere a chi come Musk, Gates e Cook antepone l'interesse delle proprie multinazionali ai diritti umani e alla legittimità internazionale significherebbe negare la democrazia nel nome dell'interesse. Ed equivarrebbe a sottoscrivere quel modello cinese che promette ai cittadini un progressivo benessere economico in cambio della rinuncia a qualsiasi diritto civile e politico.
Ma è chiaro che il pellegrinaggio dei vertici del capitalismo americano alla corte di Xi, proprio mentre Joe Biden si prepara a lottare per la propria riconferma, non è priva di conseguenze.
La visita di Blinken rischia di rivelarsi il preludio di una stagione elettorale in cui la questione cinese diventerà assai meno rilevante rispetto ad altri temi. Insomma, un ritorno a quell'era Obama che nel nome del libero commercio ha garantito mano libera alla potenza cinese.
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