Meno male che prima della decisione sui referendum della Corte Costituzionale, il suo neopresidente Giuliano Amato aveva invitato i suoi colleghi a «impegnarsi al massimo per consentire il voto popolare» diffidandoli dal cercare «il pelo nell'uovo per buttarli nel cestino». Ora si scopre che se agli elettori italiani non è stato permesso di esprimersi sulla responsabilità civile dei giudici, ovvero sull'obbligo per i magistrati di pagare di tasca propria per i propri errori, è perché il quesito proposto da radicali e Lega è stato considerato «manipolativo e creativo». Secondo la sentenza della Consulta, si puntava non a abolire una legge esistente ma a crearne una nuova con la tecnica del «ritaglio abrogativo». Si tratta in realtà di una tecnica che da sempre viene usata per formulare i quesiti referendari, e che in passato è stata bocciata dalla Corte solo quando ne risultava una domanda talmente complessa da risultare incomprensibile all'elettore medio, mentre in questo caso il quesito che l'elettore si sarebbe trovato sulla scheda era di poche e semplici righe. Invece viene bocciato, mentre è stata data via libera a un altro quesito sulla giustizia, quello sulla separazione delle carriere: interminabile (oltre mille parole) e tecnicamente assai complicato.
Invece qui la domanda era semplice. La legge sui danni da malagiustizia ingiusta oggi stabilisce che chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un atto posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave» «può agire contro lo Stato per il risarcimento dei danni». Il referendum abrogava le parole «contro lo Stato», e indicava così il magistrato come destinatario diretto delle richieste di risarcimento. Una conseguenza che la Consulta ha considerato «privo della necessaria chiarezza e univocità». Che in realtà fosse proprio il risultato finale a non essere particolarmente apprezzato dai giudici di Amato lo rivela un passaggio in cui la sentenza rimarca come la normativa attuale, per cui a risarcire la vittima degli errori giudiziari non è il giudice che li commette ma lo Stato, è «largamente presente negli ordinamenti degli Stati europei». E questa resterà la situazione anche in Italia.
Ieri la Consulta ha depositato anche le motivazioni di altri due dinieghi alle consultazioni referendarie: la inammissibilità dei quesiti sulla depenalizzazione della cannabis e sul suicidio assistito. Su questi due versanti le sentenze rispecchiano quanto anticipato nelle dichiarazioni di Giuliano Amato subito dopo la camera di consiglio. Il quesito sulla droga leggera viene bocciato perché in contrasto con le convenzioni internazionali sugli stupefacenti, in quanto il risultato sarebbe stato liberalizzare la coltivazione anche delle sostanze base delle droghe pesanti.
Il referendum sul suicidio assistito, che in realtà depenalizzava il reato di omicidio del consenziente, secondo la Consulta «avrebbe reso lecito l'omicidio di chi vi abbia validamente consentito, a prescindere dai motivi per i quali il consenso è prestato, dalle forme in cui è espresso, dalla qualità dell'autore del fatto e dai modi in cui la morte è provocata. In questo modo si sarebbe messo a rischio il diritto alla vita «soprattutto, ma non soltanto, delle persone più deboli e vulnerabili di fronte a scelte estreme, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate».
Dopo il niet della Corte, il tema torna a essere affidato al Parlamento dove una proposta di legge è già presente: e dove l'asse tra sinistra e grillini ieri ha respinto alcuni emendamenti del centrodestra che puntavano a ridurre ai casi di «prognosi infausta» e «a breve termine» i casi di suicidio assistito.
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