Non dite alle aziende chi devono assumere

Carlo Lottieri

La proposta avanzata dal ministro britannico Amber Rudd di obbligare le aziende britanniche a predisporre liste di lavoratori stranieri è un segnale preoccupante, che evidenzia alcuni aspetti cruciali di questo momento storico. In effetti, fermo restando che ogni comunità politica ha il diritto di definire le proprie regole, è assurdo che ci si voglia avviare perché è questo il segnale che l'esecutivo britannico manda verso una qualche forma di discriminazione a danno dei lavoratori non britannici.

Non è un caso che i primi ad alzare la voce contro tale proposta siano stati gli imprenditori, poiché ogni chiusura verso l'esterno rappresenta un'amputazione della libertà contrattuale dei cittadini britannici stessi. Ma la Rudd non è sola, dato che il premier in persona ha annunciato di voler limitare l'arrivo dei medici stranieri, senza capire quanto danno questo può rappresentare alla salute dei suoi concittadini.

Theresa May e gli altri memebri del governo, così come altri protagonisti della vita politica contemporanea, vorrebbero far credere che se qualche britannico è disoccupato ciò si deve alla presenza di lavoratori provenienti da altrove. Un fenomeno con molte cause quale la disoccupazione non volontaria (che in generale è in primo luogo da addebitare alla regolazione del mercato, oltre che alla tassazione) viene riletto in termini semplicistici: se abbiamo mille londinesi a spasso e mille francesi che lavorano a Londra, i primi sono senza occupazione a causa dei secondi.

Non è così, in quanto non è affatto sicuro che quell'impresa assumerebbe l'inglese se non potesse assumere il francese, e non possiamo nemmeno essere certi che quella stessa azienda esisterebbe senza il contributo dei lavoratori «non indigeni», che con il loro impegno e le loro qualità contribuiscono al suo successo.

C'è insomma una questione di diritto e di libertà, che riguarda in primo luogo la facoltà dei britannici di stipulare contratti con chi essi vogliono; e c'è poi anche una questione economica, dato che immaginare di voler restringere l'autonomia contrattuale dei britannici e delle loro imprese può solo danneggiare la società nel suo insieme. Per giunta, una realtà dinamica e multiculturale come Londra, formidabile centro finanziario e non solo, non può neppure immaginare di poter rinunciare al contributo di quanti non sono britannici: essa in questi decenni ha prosperato grazie alla globalizzazione e ogni forma di autarchia nazionalistica potrebbe solo azzopparla.

Oltre a ciò, nel caso dei lavoratori europei emigrati nel Regno Unito è del tutto chiaro che una mossa come quella adombrata dal governo inglese spinge in direzione di una Brexit radicale. E questa sarebbe una sciagura, in buona parte da addebitarsi all'Unione e ai governi europei, dato che dopo il voto popolare che ha sancito l'uscita dei britannici dalle istituzioni europee sono stati in molti a Berlino e non solo a sostenere che «in is in, out is out». Affermando insomma che, avendo votato contro l'Europa, ora il Regno Unito dovrebbe uscire pure dal mercato europeo.

A questo punto c'è da sperare che da entrambe le parti prevalga il buonsenso. È soprattutto necessario che si riconosca l'urgenza di non ledere le libertà fondamentali: a partire dalla libertà di assumere.

Con il voto di qualche mese fa Londra ha deciso di lasciare l'Unione e ora non dovrà più sottostare alle direttive di Bruxelles, né rispettare le barrieri doganali alzate a Bruxelles. Ma è bene che l'economia del Regno Unito mantenga la propria integrazione con quella europeo-continentale. È nell'interesse di tutti.

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