L'importante, si diceva una volta, è farsi un nome. Importante, conosciuto, altisonante. Ma se il «nome», complice l'anagrafe e mamma e papà con un discutibile senso dell'umorismo, te lo ritrovi appiccicato addosso appena nato non sempre devi considerarlo una scorciatoia per il successo. Più spesso è una montagna da scalare specie se il tuo omonimo, come il marchese del Grillo, è «io so' io e voi non siete un cappio». Se hai talenti di tuo è peggio: difficile diventare qualcuno se lo sei già per interposta persona, essere te stesso se sei per sempre un altro. L'ultimo caso è quello di Adolf Hitler, o meglio Adolf Hitler Uunona, 54 anni, paladino dei diritti civili e della lotta contro l'apartheid, eletto a furor di popolo nel collegio di Ompundjsa nel nord della Namibia. La colpa di quel nome, dice, è di papà «che non aveva capito bene chi fosse il Führer». Giura: «Tranquilli, io non voglio sottomettere il mondo». Meglio è andata all'ultrasettantenne sindaco giapponese di Yamato diventato popolarissimo perché si chiama Joe Biden. O meglio lui si chiamerebbe Yukawa Umema ma, spiegano i linguisti, il suo nome in caratteri kanij giapponesi si pronuncia «Jo Baiden», ed è per questo che centinaia di telegrammi ironici di congratulazioni per aver battuto Trump sono arrivati anche lui. Sui giornali è finito anche William Shakespeare detto Bill, 81enne di Coventry, ospite di un ospizio e primo vaccinato contro il Covid del Regno Unito. Ma ha fatto un certo scalpore a New York l'omicidio di Aretha Franklyn. L'assassino, subito catturato, si chiama Denzel Washington ed è suo figlio.
Basta scorrere la cronaca per scoprire come avere il nome di un altro sia spesso una condanna. Mark Zuckerberg, avvocato, omonimo del fondatore di Facebook è stato espulso da Facebook medesima per furto di identità. Inutile far presente che lui è veramente Mark Zuckerberg. Niente in confronto a Saddam Hussein, ingegnere indiano, che non trova lavoro, giura, per colpa più del suo nome che del suo curriculum. Un lavoro di prestigio invece l'hanno meritato Ficarra e Picone che non sono solo una coppia comica ma anche il questore e il vicequestore di Salerno.
Il nome gioca brutti scherzi. Bruno Conti, bagarino e truffatore, vendeva tessere della Roma fasulle da tribuna vip; Edmondo De Amicis, ladruncolo milanese, fu beccato a rubare libri a una biblioteca di Porta Venezia e la mente di una clamorosa rapina da un miliardo ai tempi della lira alle Poste di Palermo era un impiegato delle stesse poste ma con un nome che avrebbe dovuto mettere in allarme: Salvatore Giuliano. Giulio Andreotti, «vetturiere» dell'hotel Bristol Bernini di Roma per anni ha ricevuto telefonate piene di insulti e richieste di favori da chi era convinto fosse l'onorevole. La cosa buona è che tutte le volte che cercava posto in treno o in albergo glielo rimediavano subito. Decise comunque di cambiare nome sull'elenco telefonico in Andreotti Giulio Cesare. Da imperatore non lo cercò più nessuno. A chiamarsi Salvatore Riina erano una marea: impiegati, geometri, ragionieri, pensionati, tutti incensurati. Uno, bancario, pure lui di Corleone, raccontava che in viaggio di nozze ai Caraibi il portiere dell'albergo strabuzzò gli occhi al nome. «He's the Godfather of Corleone» sussurrò ai colleghi. E tutti si misero a disposizione.
Quando Edson Arantes do Nascimento, il vero nome di Pelé, venne annunciato qualche anno fa in arrivo all'aeroporto di Ginevra per partecipare a una conferenza sul calcio andarono ad accoglierlo giornalisti, fotografi e tifosi.
Peccato fosse solo un anonimo funzionario del ministero dello Sport brasiliano. Il più divertente resta comunque Paolo Rossi, il cabarettista omonimo del Pablito del calcio. Quando esibiva i documenti ai controlli di polizia lo guardavano attenti e gli chiedevano: «Paolo Rossi fratello?».
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