Con il blitz anti-banche per tassare i cosiddetti «extraprofitti», la premier Giorgia Meloni è riuscita ad entrare come un coltello nel burro nella confusione del centrosinistra. Perché quella misura, che solletica gli istinti anti-establishment e offre un facile «nemico» su cui scaricare il malessere da impoverimento, piace moltissimo a sinistra.
Al punto che ora, tanto più dopo la pace siglata tra la premier e il suo vice azzurro Antonio Tajani - assai critico sul metodo con cui è stato varato il provvedimento ma anche sul suo merito - nel Pd e dintorni si spera apertamente che il governo blindi il decreto con la questione di fiducia, quando approderà in Parlamento. Altrimenti, è il timore confidato a taccuini chiusi da un esponente Pd, «il fronte delle opposizioni rischia di dividersi nel voto», con conseguenze imbarazzanti su altri fronti, a cominciare da quello del salario minimo. Del resto basta rileggere le prime reazioni di molti big del centrosinistra per capire perchè si troverebbero assai in difficoltà a votare contro un provvedimento di cui si sono affrettati a rivendicare non solo i meriti, ma anche la primogenitura. Dal momento in cui il blitz punitivo contro le banche è stato annunciato da Pd, M5s, rossoverdi e Cgil hanno fatto a gara per attribuirsi la paternità della trovata: «Meglio tardi che mai, è una misura utile per affrontare l'emergenza sociale del paese», ha applaudito il responsabile economico del Pd Antonio Misiani. «Il governo ha accolto la nostra proposta di un contributo di solidarietà a carico delle banche», ha rivendicato l'ex ministro del Lavoro dem Andrea Orlando, che appena una settimana prima - a fine luglio - aveva depositato una mozione per chiedere a Giorgia Meloni di fare esattamente quel che - forse ispirata proprio dal suggerimento orlandiano - ha fatto.
Ovviamente anche Giuseppe Conte è subito accorso ad appuntarsi la medaglia: «Ci hanno dato ragione: ora il governo accoglie la nostra proposta di tassare gli extraprofitti».
É dunque facile capire perchè Pd, M5s e sinistra (con l'esclusione del Terzo Polo, assai critico sul provvedimento), rischiano di trovarsi in gran difficoltà quando alla ripresa autunnale il provvedimento arriverà in aula. Che fare? Votare quella che si è rivendicata come una propria proposta, regalando a Meloni un successo parlamentare alla Draghi, o rimangiarsi gli applausi, per di più su un provvedimento di cui la destra farà una bandiera propagandistica?
I primi a intuire il pericolo e a mettere la sordina agli entusiasmi sono stati i Dem: Elly Schlein ha interrotto la misteriosa sacralità delle sue vacanze (al Nazareno confidano di non sapere neppure dove sia) per metterci una pezza via intervista a Repubblica: certo, «chiedevamo da tempo un intervento redistributivo» come questo, ma il governo «si è mosso tardi e in modo approssimativo, senza un confronto preventivo e soprattutto senza dire dove finiranno quelle risorse». Un modo anche per tagliare la strada a possibili convergenze tra maggioranza e M5s: non a caso ieri, sulla Stampa, Lucia Annunziata (analista politica ma anche potenziale candidata Pd alle europee) sottolineava «l'asse populista tra Conte e Meloni» che, dalle nomine alla Rai alle banche, si salda spesso e volentieri. Andrea Orlando, a chi gli chiede se sono possibili aperture parlamentari, replica: «Non ho visto l'ultimo testo».
Mentre Arturo Scotto, capogruppo Pd in Commissione Lavoro, confida che «il problema non si porrà, perchè dovranno mettere la fiducia, come su ogni decreto. Tra l'altro questo è talmente 'omnibus' che non puoi prenderlo per una singola misura». Altrimenti, è poco ma sicuro, la tentazione si affaccerebbe.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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