Queste elezioni amministrative di mezza stagione mostrano anche a chi non vuole vedere i segni di una democrazia malata. La giustizia batte il tempo della politica, puntuale, metodica, spesso invadente. La politica non è da meno e disegna la giustizia, la influenza, la colora. Non c'è più un confine. Non c'è spazio tra l'una e l'altra e neppure autonomia. È una maledetta invasione di campo, che ormai dura da decenni, e nessuno sembra avere la forza, la voglia e soprattutto il buon senso di frenare. La riforma Cartabia non ha toccato la pelle viva, non ne ha sfiorato i nodi. Lo farà il referendum, tagliando di netto e a quel punto la sfida sarà ricostruire senza lasciare troppe cicatrici. È così che ogni volta che i due poteri si incontrano, si toccano, finiscono per annichilirsi. È come materia e anti materia. Si annientano, lasciando per terra dubbi, domande, incertezze e in clima di sfiducia che avvelena qualsiasi cosa. La sensazione diffusa è che le regole del gioco democratico non siano mai davvero affidabili, qualcosa le falsa, le corrompe, le lascia indeterminate e così gli sconfitti non riconoscono la sconfitta e i vincitori non troveranno mai piena legittimazione. È lì che la piazza rancorosa, virtuale e non, trova forza e spazio e spinge lo scontro alla logica binaria del rosso e nero. Lo sconfinamento reciproco di politica e giustizia ha creato quella palude da dove si fa fatica a immaginare il futuro. Adesso si vota, ma al centro del tavolo non ci sono idee e progetti. Non c'è davvero una visione su cosa sarà Roma o Milano. È marginale. Si sta qui a ragionare di Morisi o di Lucano e si vota contro l'uno o contro l'altro, tutti convinti di avere in tasca una verità che non può essere messa in discussione, perché è «metapolitica» e «metagiudiziaria», viene prima di qualsiasi valutazione o giudizio, viene prima perfino dei fatti. Il risultato è che non siamo più elettori ma giurati: parziali, carichi di pregiudizi, irrimediabilmente tifosi. È una storia lunga e comincia alla fine della prima repubblica. È la conseguenza di una rivoluzione politica fallita, che si è arenata all'improvviso davanti alla vittoria di Berlusconi nel '94. È da allora che i due poteri non trovano pace. A rendere invisibile il confine è stata l'abolizione di una garanzia antica, quella che proteggeva il rappresentate del popolo sovrano nell'esercizio delle sue funzioni. L'immunità parlamentare era la camera di compensazione che separava i due poteri.
Nessuno è superiore alla legge, ma ti processo quando non sei più senatore o deputato. Non è un privilegio. È una tutela contro la vendetta giudiziaria degli avversari politici. L'immunità è nata per questo e forse aveva un senso.
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