"Da papà Umberto ho capito l'importanza del sorriso"

L'oncologo figlio d'arte, Paolo Veronesi: "Siamo sulla buona strada per sconfiggere i tumori. Ma serve più prevenzione"

"Da papà Umberto ho capito l'importanza del sorriso"

«Quando ero bambino mio padre rappresentava la perfezione. Avevo una totale adorazione per lui». Chi parla è Paolo Veronesi, oncologo di 63 anni, Presidente della Fondazione Umberto Veronesi, Direttore del Programma Senologia dell'istituto europeo di oncologia e Professore ordinario all'università la Statale di Milano. Rinomato sia per i suoi notevoli successi professionali, sia perché è uno dei sei figli di Umberto Veronesi. Figura straordinaria nella medicina e nell'oncologia del dopoguerra italiano.

Cent'anni dalla nascita di Umberto Veronesi. Cosa ha determinato nella sua vita una figura come quella di suo padre?

«È stata una figura unica. Innanzitutto un padre. Ma poi anche una guida fondamentale per la mia vita lavorativa».

Lei sin da bambino voleva fare il medico?

«No. Ho deciso all'ultimo minuto di iscrivermi a medicina. Dopo la maturità. Durante le vacanze. Stavamo all'Argentario. A me piaceva la matematica, pensavo di fare il matematico. Poi è stato proprio parlando con mio padre, sulla riva del mare, che ho deciso di fare il medico».

Come è stato l'inizio del lavoro?

«Beh, nei primi tempi cercavo di seguire mio padre, ma lui mi allontanava. Non voleva che stessi vicino a lui nell'ospedale che dirigeva. Ci teneva che facessi il mio percorso. E aveva paura delle critiche».

Sua madre era un'ebrea sopravvissuta a un campo di concentramento.

«Sì. Bergen Belsen. Ne è uscita viva».

Ve ne parlava?

«Con leggerezza. Mi ricordo che quando noi eravamo piccoli e non volevamo mangiare o buttavamo del cibo ci diceva di quando lei era costretta, per sfamarsi, a mangiare le bucce di patate. Lo faceva con grazia, con grande eleganza. Noi la prendevamo in giro e lei si lasciava prendere in giro».

Suo padre era presente come padre?

«Poco presente in termini di tempo. Poco tempo e per di più diviso per sei fratelli. Però era molto attento ai nostri problemi. Li seguiva. Ci ha aiutato. Anche dal punto di vista emotivo».

Quando lo vedevate?

«Il sabato pomeriggio. C'era il momento nel quale sentivamo girare la chiave nella toppa della porta di casa e arrivava lui, e poi c'era il rito che uscivamo tutti insieme e spesso ci comprava dei giocattoli».

Lei l'ha sofferta questa assenza?

«Da bambino sì. Molto. Io primogenito e poi ad uno ad uno sono arrivati cinque fratelli. E ogni fratello che arrivava io perdevo un po' dell'attenzione dei miei genitori. A me nessuno chiedeva se avessi messo la maglia di lana o se avessi mangiato o mi fossi lavato i denti. Adottavo le mamme dei miei amici per avere attenzioni».

Anche lei ha parecchi figli?

«Beh, quattro. Il più piccolo fa medicina».

Qual è l'insegnamento maggiore che le ha lasciato suo padre?

«Il sorriso quando riceveva i pazienti. Affascinava anche le pazienti più disperate».

Lei ha dedicato il suo impegno soprattutto alle donne

«Sono quarant'anni che faccio questo lavoro e ho sviluppato un grande amore per le donne, sto imparando a conoscerle: hanno una forza e un'energia incredibile. Riescono a fare cose che nessun uomo riuscirebbe a fare. Non si fanno abbattere da nulla. Sono strepitose».

Qual è il momento più difficile per una donna che scopre di avere un tumore?

«Beh, certamente la diagnosi. Papà mi ha insegnato ad essere sempre rigoroso sulla diagnosi: dire la verità. E poi di spargere ottimismo sulla prognosi».

Entro un numero ragionevole di anni il tumore al seno potrà essere sconfitto?

«Penso che siamo sulla buona strada. Negli ultimi anni abbiamo fatto passi da gigante sia nella diagnosi, precoce, sia nelle terapie».

Si fa poca prevenzione?

«Sì. Poca. Un tumore piccolissimo, non troppo aggressivo, lo curiamo con sei o sette ore di ricovero e senza chemio. Ma va preso in tempo».

E se invece il tumore è aggressivo ed è preso tardi?

«Anche in quel caso oggi abbiamo la possibilità di aumentare molto la durata della vita. Qualche anno fa magari l'aspettativa di vita era massimo un anno, ora sono molti di più».

Anche suo padre è morto per un tumore...

«Non si sa questo. È rimasto un mistero. Sì, sembrava che avesse un tumore, ma poi tutte le analisi dissero che non c'era. Nel 2016, all'inizio dell'estate, si mise a letto. Gli chiedemmo perché. Lui rispose solo che stava più comodo. Continuava a lavorare. Però ogni giorno era più debole. Poi a novembre si è spento. E nessuno sa esattamente perché».

Era ambizioso suo padre?

«Sì. Appena otteneva un obiettivo ne fissava uno nuovo».

La sua vittoria più importante?

«Nella guerra per salvare la mammella delle donne che avevano un tumore. Evitare l'asportazione».

Cos'è la fondazione Veronesi di cui lei è presidente?

«Era una idea fissa di mio padre. È nata in uno scantinato sotto casa di papà. Diceva che bisogna promuovere la cultura scientifica, che in Italia è debole. E infatti dilagano i no-vax, i sieri miracolosi, i metodi Di Bella. In questi anni la Fondazione è molto cresciuta. Ha 50 dipendenti e raccoglie 20 milioni di fondi per la divulgazione e per la ricerca».

Ci sono molte polemiche sul funzionamento della sanità pubblica. Qual è la sua idea?

«La sanità pubblica in Italia è una grandissima conquista. Funzione non benissimo, ma bene. Garantisce nel caso di malattie molto gravi, come il tumore, cure costosissime a tutti i cittadini».

Però ci sono tante cose che non vanno.

«Sì certo. Pronto soccorso che funzionano male, medici di base. Bisognerà migliorare le cose. Anche perché non possiamo credere che gli ospedali gestiscano tutti i problemi della salute. I grandi ospedali devono occuparsi delle malattie più importanti. Poi occorre una rete sanitaria diffusa nel territorio. Facendo collaborare pubblico e privato».

Si parlò di una sua candidatura a sindaco di Milano. La esclude?

«Per il momento sì. Non era e non è ancora il momento. Più avanti se dovesse ricapitare l'occasione non è detto che non accetti»

La dote principale di Umberto Veronesi?

«La lungimiranza. Vedeva sempre più avanti di tutti».

E il difetto di suo padre?

«Non credo che avesse difetti».

Le manca molto?

«Non mi manca Per me lui c'è sempre».

Qual è la dote che lei si riconosce?

Ride, tace, ride ehhhhhh

Su, non sia modesto

«Sono instancabile».

Un suo difetto?

«Boh. Non saprei».

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