La nuova costituzione cilena è stata respinta dal 62% degli elettori che, è bene chiarirlo, non sono «pro Pinochet» come ha scritto su Twitter il presidente della Colombia Gustavo Petro ma, più semplicemente, hanno detto no all'abolizione del Senato, a un caotico stato plurinazionale sul modello boliviano, a radicali trasformazioni dell'ordinamento giudiziario, oltre ad espandere a dismisura il ruolo dello stato nell'economia. Come scriveva qualche giorno fa il Wall Street Journal, anticipando la vittoria del No, «una lezione per ogni paese che cerca di costruire una società libera e giusta è che il terrorismo non può produrre unità nazionale». È vero, infatti, che il Partito Comunista e la sinistra radicale, compresi i suoi rappresentanti nella comunità indigena, avevano ottenuto il controllo dell'assemblea costituente nelle elezioni del maggio 2021. Ma il progetto costituzionale bocciato l'altroieri è stato possibile solo perché militanti comunisti, anarchici e criminali comuni stavano bruciando, saccheggiando e vandalizzando il Paese in una furia, iniziata nell'ottobre 2019, che il governo non riusciva a contenere.
Nel merito, la bozza respinta ieri era pessima, a tal punto che persino l'ex presidente Eduardo Frei, un democristiano doroteo favorevole a cambiare la costituzione del 1980, già il luglio scorso aveva annunciato che avrebbe votato No perché, con la vittoria del Sí la maggioranza eletta potrebbe spostare il paese «verso un regime dittatoriale» simile a «quelli nel mondo che stanno diventando frequenti». Traduzione: fare la fine di Venezuela e Nicaragua, due paesi che hanno cambiato la loro Magna carta negli ultimi tre lustri con i risultati oggi sotto gli occhi di tutti.
Come sottolineato da Eugenio Guzmán, decano della Facoltà di Governo dell'Universidad del Desarrollo, la UDD, «il margine di vittoria del No è stato più ampio nei comuni appartenenti alle frazioni di reddito più basso rispetto a quelli con il reddito più alto. La differenza nei comuni a reddito minore ha raggiunto i 50 punti percentuale. Inoltre, nelle aree rurali la vittoria del No è stata di circa 45 punti». Da segnalare anche che il «No» ha ottenuto addirittura il 75% nei dieci comuni con la più alta concentrazione di popolazione mapuche. Tutto questo dovrebbe far riflettere la sinistra, che crede sempre di parlare a nome dei poveri e degli indigeni che, però, quando votano come lei non piace o sono tacciati di ignoranti o, come nel caso cileno, di pinochettisti.
La sinistra dura, come dimostra il Tweet di Petro, non accetterà questa sconfitta. Vedremo se torneranno i vandali a Santiago ma, per intanto, è bene chiarire che la sconfitta è soprattutto del Partito Comunista cileno, che lo scorso maggio aveva tenuto un Comitato Centrale proprio sul referendum, bollando il voto di domenica scorsa come la «battaglia di battaglie». «La vittoria del Sì è direttamente collegata al successo del governo e la vittoria del 4 settembre deve essere una vittoria sulle forze del No, che sono contro le trasformazioni che il Cile richiede», avevano scritto nero su bianco i comunisti cileni. Per poi aggiungere: «Dobbiamo far di tutto per vincere anche perché il 4 settembre è un giorno simbolico, visto che proprio quel giorno del 1970 il compagno Allende trionfò alle elezioni». Ora la data assume tutt'altro significato.
Boric, il leader cileno più di sinistra dai tempi di Allende, lo scorso anno in campagna elettorale aveva promesso ai suoi elettori che «se il Cile è stato la culla del neoliberismo, sarà anche la sua tomba». Per farlo voleva cambiare la costituzione. Per ora gli è andata male.
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