Usare la guerra come dimensione della politica è un gioco pericoloso. Ed assai incerto. Il sangue innocente dei sette operatori umanitari di World Central Kitchen uccisi per errore dall'esercito israeliano mentre distribuivano cibo nella Striscia di Gaza ne è la prova. E Benjamin Netanyahu lo sta scoprendo a proprie spese. Quando ha autorizzato il raid sulla rappresentanza diplomatica iraniana di Damasco il suo obiettivo non era soltanto seppellire sotto le bombe Mohammad Reza Zahedi e i suoi luogotenenti. Il comandante dei Pasdaran era sicuramente un obbiettivo importante. E la sua individuazione a Damasco un'occasione da non sprecare. Il capo dell'unità 18.000, la sezione delle Brigate Al Quds responsabile del trasferimento di armi e munizioni alle milizie sciite attive in Siria e Libano, era nel collimatore di Israele da molti anni. E resta il bersaglio più rilevante fra i tanti eliminati dallo stato ebraico. Ma le esigenze strategiche si coniugavano stavolta con quelle politiche.
L'eliminazione di un nemico di quel calibro era il modo più veloce per restituire a Netanyahu il consenso di un'opinione pubblica sempre più decisa a chiedere le dimissioni del premier e il ritorno alle urne, come è successo ancora ieri sera, quando i manifestanti sono riusciti a superare i cordoni di sicurezza e hanno raggiunto l'ingresso della casa del primo ministro. In quel contesto eliminare Zahedi significava dimostrare di non voler concedere tregua ad un Partito di Dio che grazie ai missili iraniani ha desertificato il Nord d'Israele costringendo 70mila abitanti ad abbandonare le proprie case. Ma eliminare Zahedi significava anche far capire alla Suprema Guida Alì Khamenei che Israele era pronto allo scontro diretto con la Repubblica Islamica. Più sotto traccia Netanyahu faceva capire di non temere nemmeno l'ira di una Casa Bianca poco entusiasta di appoggiare Israele in un'eventuale guerra con Teheran e con le milizie sciite di tutto il Medioriente.
L'eliminazione di Zahedi doveva, insomma, mettere la sordina alle manifestazioni anti Netanyahu che agitano le piazze, restituendo al premier l'aurea di strenuo difensore del popolo ebraico. Ma giocare a risiko sui fronti di guerra significa sfidare l'imprevedibile. Soprattutto quando su quei fronti si è scelto, come a Gaza, di mettere da parte ogni cautela tattica regalando carta bianca al proprio esercito. Questo non significa che l'uccisione dei 7 umanitari di World Central Kitchen sia stata decisa intenzionalmente. Ma, come si diceva, in guerra più si osa e più gli errori diventano non solo possibili, ma altamente probabili. E talvolta estremamente dannosi per chi usa la guerra come dimensione della politica. La morte dei volontari Wck, oltre a oscurare l'operazione di Damasco, dirotta nuovamente l'attenzione dell'opinione pubblica israeliana su Gaza, amplificando gli errori commessi dal premier su quello scenario.
Uno scenario dove Israele dopo aver perso, all'alba del 7 ottobre, la propria capacità di deterrenza, ha dilapidato anche quella dimensione etica che ha sempre caratterizzato l'azione del proprio esercito.
E tutto ciò senza aver mantenuto né la promessa di liberare gli ostaggi, né quella di distruggere Hamas. Uno scenario fatale dove l'imprevedibilità della guerra minaccia di cancellare anche l'immagine di un premier pronto a usarla come succedaneo della politica.
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