Si arrovellano pensosi, si scambiano sorrisini d'amara intesa nel salotto tv unicolor di Zoro, compulsano le viscere di un saggio di Pasolini sorseggiando un cabernet biologico di D'Alema, ripassano le battute di un film di Nanni Moretti. Ma niente. Le risposte non arrivano, l'ispirazione manca. Perché la sinistra non vince più? Perché l'eterno fantasma del fascismo più non frena i bassi istinti della plebe? Eppure il metodo l'ha inventato l'antico homo democristianus («Dio ti guarda, Stalin no»).
La disperazione dell'intellighenza è palpabile, il disorientamento tracima dagli attici vista centro storico. Qualche coraggiosa avanguardia tira fuori la propria verve creativa. Il colpo da maestro è di Paolo Flores d'Arcais: nessuno crede più alla minaccia fascista dopo il decimo zerovirgola elettorale di Casapound? Allarghiamo la platea. Su Micromega, il professore lancia una nuova categoria della politologia progressista. «Ha vinto il pre-fascismo», tuona d'Arcais. «Il pre-fascismo - insiste - non è il fascismo, ovviamente, e potrebbe non diventarlo. Ma ne contiene già tutti gli ingredienti costitutivi». Siamo a Philip Dick, alla «pre crimine» di Minority report. Forse non sei ancora fascista ma puoi essere accusato, e fermato, prima che lo diventi. E se per caso sta succedendo a tua insaputa, puoi sempre usare il «fascistometro», l'«esame del sangue» in forma di gioco di società, inventato da Michela Murgia, che per giorni ha appassionato il popolo Dem. Che colpo di genio il pre-fascismo. Pare già di vedere le signore dei girotondi urlarlo nelle piazze: «Pre-fascisti carogne, tornate nelle pre-fogne».
L'ultimo uppercut, il colpo di crocifisso alla tempia, è stato troppo. Va bene l'Emilia rossa, ma pure la ridotta di Capalbio in mano ai barbari? Le avanguardie vacillano, mancano le parole. Dire qualcosa di sinistra diventa sempre più difficile. Qualcuno sbotta. E chi se non l'ormai inacidito Gad Lerner? Su Twitter consegna una perla analitica imperitura: «L'Italia leghista è un rivolgimento profondo, sociale e culturale prima ancora che politico, come testimonia il voto nelle regioni rosse», pondera e poi spara il capolavoro: «Già in passato le classi subalterne si illusero di trovar tutela nella trincea della nazionalità. Non finì bene». Il brodo di cultura è sempre lo stesso, l'allarme pre-fascista è implicito, ma a Lerner scappa anche un'etichetta così boriosa e sprezzante da sembrare una gag di lercio. Le «classi subalterne» sono la versione killer del «proletariato», per anni santificato a patto che stesse a distanza di rispetto dall'Ultima spiaggia. E, infine, apertamente ghettizzato, tacciato di un'inferiorità che non è solo economica.
L'esternazione di Lerner non dovrebbe sorprendere. Mette semplicemente a nudo un pensiero che da anni guida (verso il baratro elettorale) la sinistra: le masse incolte vanno guidate dall'avanguardia illuminata. Alle prime batoste un residuo di pudore conduceva ad analisi del tipo: «Non ci siamo fatti capire», «Non abbiamo saputo parlare il linguaggio delle masse». Ora che i kappaò sono diventati la regola, si esce allo scoperto: le masse non ci seguono perché sono rozze, prive di cultura. In pratica, non capiscono una mazza. Soprattutto non capiscono noi, che sappiamo e li avevamo avvertiti. Ci casca anche il cauto Gianni Cuperlo che, su La7, sottolinea la coincidenza tra il 33% di abbandono scolastico e la vittoria della Lega in Sardegna. Ma ha almeno il buon gusto di rettificare.
Nessuno è sfiorato dal sospetto che le masse capiscano benissimo, anche senza leggere Adorno. Basta guardarsi il portafogli, dopo anni di sinistra.
Sanno che il doping populista di Salvini e M5s vale quello di falce e martello e Avanti popolo. Ma ci provano. Se va male, avanti un altro. Ma se la sinistra continua a ragionare come Lerner, il suo turno prossimo è ancora lontano.
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