La Ditta si riappropria del Pd e spinge per il cambio del nome. Bersaniani e dalemiani, dopo la scissione del 2017, ribussano alla porta del Nazareno al fianco di Elly Schlein. Ma pongono subito una condizione: via il nome. Una battaglia che mette insieme tutti gli scissionisti: da Roberto Speranza a Pierluigi Bersani. Tutti vogliono il «funerale» del Pd. Resiste il fronte «cosiddetto riformista» guidato da Stefano Bonaccini. Il sindaco di Bologna Matteo Lepore lancia l'idea del Padel (partito del lavoro). Speranza apprezza: «Giusto mettere dentro il nome lavoro». Dario Franceschini, che è schierato al fianco di Schlein, fiuta il pericolo e la mette in guardia. L'ex ministro della Cultura teme una trasformazione del Pd in una riedizione dei Ds. Al Nazareno, la discussione, nel day after dell'assemblea nazione, è tutta incentrata sul cambio del nome. Paola De Micheli è netta: «Con tutti i problemi che abbiamo, il tema è il cambio del nome del partito? Soltanto chi sta facendo il praticantato nel Pd poteva chiedere il cambio del nome». In realtà si contendono due strategie. Quella degli ex. La ditta Bersani-D'Alema vuole una rifondazione all'insegna di uno slittamento a sinistra del Pd. Posizione condivisa da Orlando e Provenzano che vogliono rilanciare l'asse con i Cinque Stelle e costruire un fronte di sinistra. L'altra tesi è quella di Bonaccini e dei riformisti dem: la conservazione del nome Pd e la riapertura del dialogo con i Cinque Stelle ma da una posizione più moderata. L'operazione di Bonaccini punta a uno svuotamento del polo centrista di Renzi e Calenda per occupare quell'area di consenso. Basta vedere gli attacchi che i renziani stanno riservando in Toscana al sindaco di Firenze Dario Nardella, sostenitore della mozione Bonaccini. In realtà, Elly Schlein ha capito il gioco di Bersani, Provenzano e Speranza e ieri da Lucia Annunziata ha ingranato la retromarcia: «Non è fondamentale cambiare nome se non cambiamo facce, metodo e se non c'è una visione comprensibile. Mi sono candidata non avendo mai fatto parte del gruppo dirigente, invocando la necessità di una «discontinuità netta. Perché non possono essere sempre gli stessi interpreti a fare una credibile rottura col passato. Se avrò l'onore di essere la guida di questa comunità, rinnoverò il metodo di selezione della classe dirigente del partito. Inoltre non si torna al governo senza un profilo chiaro, senza vincere le elezioni e senza costruire una coalizione che dica prima agli italiani cosa vuole fare per loro. Serve una casa comune e tanti non tornano se non riconosciamo cosa il Pd non ha fatto negli ultimi 10 anni».
Bonaccini boccia l'idea di un nome nuovo ma condivide con la sfidante la necessità di cambio radicale della classe dirigente: «C'è una classe dirigente, più o meno sempre la stessa, che va cambiata, ma non perché dobbiamo rottamare qualcuno. Non dobbiamo chiedere scusa se chiediamo a chi è stato classe dirigente, senza farci vincere, di mettersi in panchina. Se la classe dirigente non ci mette la faccia e come è accaduto non si candida in nessun collegio uninominale, vuol dire che è finita una stagione.
Se rimane questa legge elettorale facciamo le primarie, facendo scegliere agli elettori». La discussione andrà avanti per giorni. Ma al Giornale una fonte di primo piano spiega: «L'ipotesi di cambiar nome non è più sul tavolo».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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