Mobilitazione di 300mila riservisti, referendum delle zone occupate dell'Ucraina, per annetterle subito alla Russia, conquista totale del Donbass e spauracchio nucleare. Il discorso del nuovo zar, Vladimir Putin, di ieri mattina, non lascia dubbi sull'escalation del conflitto nel cuore dell'Europa. E non è un caso che il presidente russo inizi il fatidico discorso convinto che «lo scopo di questo Occidente è indebolire, dividere e infine distruggere il nostro Paese». Putin evoca il crollo dell'Unione sovietica nel 1991 convinto dell'esistenza di un piano per smembrare la Federazione russa «che dovrebbe disintegrarsi in molte regioni mortalmente ostili».
L'orso russo si sente braccato in un angolo e reagisce come una bestia ferita dalla controffensiva Ucraina che ha liberato tutta la regione di Kharkiv con l'appoggio segreto, ma decisivo, della Nato. Il passaggio sulla regione contesa dal 2014, non lascia dubbi. Il presidente russo ribadisce che gli «obiettivi principali - la liberazione dell'intero territorio del Donbass - sono rimasti e rimangono invariati». I russi devono ancora conquistare il 45% della regione di Donetsk, ma Putin ammette che gli ucraini «hanno creato una linea profondamente scaglionata di fortificazioni» difficili da espugnare se non con un alto tributo di sangue.
Per questo dispone che gli «ascari» locali, i miliziani filorussi del Donbass, vengano parificati ai «militari regolari dell'esercito russo» a cominciare dalle forniture belliche, il supporto medico e «le garanzie sociali».
Putin spiega che il fronte si è allungato «oltre mille chilometri» ricalcando «le terre storiche della Novorossia» fondata dalla zarina Caterina. Una specie di giustificazione per il primo fendente dell'escalation: «I parlamenti delle repubbliche popolari del Donbass, così come le amministrazioni militare-civili delle regioni di Kherson e Zaporizhzhia, hanno deciso di indire referendum sul futuro di questi territori e si sono rivolti a noi, la Russia, con la richiesta di sostenere tale passo». In pratica fra il 23 e 27 settembre si svolgerà un voto bulgaro, nei territori occupati, a favore della secessione dall'Ucraina. Putin promette che farà di tutto per far svolgere il referendum e «sosterremo la decisione sul loro futuro». Tradotto l'annessione verrà velocemente approvata dalla Duma, il parlamento russo, come ha spiegato il l vice capogruppo parlamentare di Russia Unita, il partito del Cremlino, Dmitry Vyatkin. La mossa ha un preciso obiettivo: utilizzare tutta la forza necessaria se gli ucraini continuassero ad attaccare per liberare i territori occupati. Grazie ai referendum, riconosciuti solo da Mosca, diventeranno a breve parte integrante della Federazione, come la Crimea. Così Putin potrebbe usare armi nucleari tattiche, per respingere gli attacchi come prevede la dottrina militare russa.
L'ulteriore passo dell'escalation, che va incontro alle richieste dei militari e serve a calmare i falchi, è «la mobilitazione parziale». Nel discorso Putin specifica che «saranno soggetti alla leva solo i cittadini che attualmente sono riservisti, e soprattutto coloro che hanno prestato servizio nelle Forze armate, hanno determinate specialità militari e relativa esperienza». Il numero previsto è di 300mila uomini su 2 milioni di riservisti e 1 milione di effettivi. La mobilitazione è iniziata, subito, da ieri. Il nuovo zar ha ordinato pure l'aumento immediato della produzione bellica.
Lo spauracchio nucleare viene evocato alla fine del discorso ribaltandolo sull'Occidente accusato di «aggressiva politica antirussa» che avrebbe «superato ogni limite». Putin, che vede il mondo al contrario, accusa la Nato di aver «lanciato anche il ricatto nucleare». E per questo affonda la stoccata: «Vorrei ricordare che anche il nostro Paese dispone di vari mezzi di distruzione, e per alcune componenti più moderne di quelle dei Paesi Nato».
Per poi pronunciare una minaccia che fa accapponare la pelle: «Se l'integrità territoriale del nostro Paese sarà minacciata, useremo sicuramente tutti i mezzi a nostra disposizione per proteggere la Russia e il nostro popolo. Non è un bluff».
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