Quando il delitto non conosce castigo

La figlia lo minacciava di denunciarlo per violenza sessuale. O di ucciderlo. Oppure, quando era più melodrammatica, di farla finita assieme al bimbo che porta in grembo

Quando il delitto non conosce castigo
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C'è una plumbea atmosfera dostoevskiana nella storia del papà palermitano spinto al suicidio dalle prepotenze della figlia ragazzina e del di lei fidanzatino. Un romanzo senza luce e senza speranza. C'è la Povera Gente, c'è l'Adolescente, ci sono I Demoni, ci sono gli Umiliati e Offesi e le Memorie dal sottosuolo. C'è naturalmente il delitto ma forse senza castigo. Una trama talmente abietta che è perfino difficile trarne uno straccio di morale come pure impone la cultura cattolica di cui è ancora impastata qualsiasi nostra narrazione, quella per cui alla fine, cerca e cerca, da ogni male si può trarre comunque un bene.

La redenzione.

Il riscatto.

(Certo è troppo presto per dirlo, magari alla fine di questo gorgo profondo ci sarà, tra qualche mese, tra qualche anno, tra qualche decennio, una salvezza di qualche tipo per questa storia di sommersi. E comunque non verremmo mai a saperlo, perché le bassezze vanno in prima pagina e le lente risalite no, non fanno notizia né letteratura).

Però gli ingredienti sono così malmostosi da sembrare concepiti da uno sceneggiatore depresso, senza alcuna fiducia nell'umanità e con la precisa intenzione di toglierla anche a noi. Ma la vita non è come il cinema, dove alla fine c'è sempre un produttore che dice: no, è troppo, stempera. I plot dell'esistenza accadono senza che qualcuno li approvi. Capita così che un uomo di quarantotto anni diabetico, disoccupato, senza i soldi per curarsi, che vive nel Villaggio Santa Rosalia, per quattro mesi venga sottoposto a continue richieste di somme di denaro che lui non ha dalla figlia adolescente, che ce l'ha con lui perché dopo la morte della madre, il padre si era messo con un'altra donna.

Poi c'è quello che appare come il vero protagonista di questa vicenda, il Raskolnikov palermitano, il fidanzato della ragazzina, oggi diciottenne ma all'epoca della vicenda anche lui minorenne. È figlio di un pregiudicato per reati di criminalità organizzata, cresciuto probabilmente nel milieu della soperchieria e della sopraffazione, della minaccia e della paura. Che nella legge della strada o ce l'hai tu o ce l'ha chi ti sta di fronte, e quindi tanto vale la seconda che hai detto. Il ragazzino trasforma il padre della la fidanzata nel suo bancomat: vuole un nuovo telefonino da novecento euro e lo pretende dal «suocero», ché a chiederlo al padre sarebbero probabilmente schiaffoni. Il conto della cena. La ricarica del telefonico. Lo shopping.

Come l'uomo si procurasse il denaro per rispondere a queste richieste non è dato sapere. Si sa invece cosa accadeva quando provava a dire no, come Bartleby, lo scrivano di Hermann Melville. La figlia lo minacciava di denunciarlo per violenza sessuale. O di ucciderlo. Oppure, quando era più melodrammatica, di farla finita assieme al bimbo che porta in grembo. Già, perché neppure questo lo sceneggiatore di cui sopra ha voluto risparmiarci: la ragazzina è incinta, a sedici anni.

A un certo punto a farla finita ci ha pensato lui, l'uomo, umiliato e offeso, forse taglieggiato dai creditori, costretto a nutrirsi, come scrive nella lettera lasciata ai figli, «a pane e acqua».

Lui si è ucciso a marzo, ieri gli arresti dei due giovani con una sfilza di accuse mostruose: rapina, estorsione, morte o lesione come conseguenza di altro delitto. Ma il codice penale non riesce a descrivere la turpitudine di questo abisso. Qualunque sia il castigo che la legge stabilirà per questo delitto, le colpe dei figli ricadranno sempre sui padri.

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