«Il premierato evita lo scoglio di un presidente sganciato dalla maggioranza, con i relativi possibili esiti autoritari di un capo dell'esecutivo in balia della dialettica infinita dei partiti forti e dei governi deboli». Trent'anni fa la sinistra non era affatto preoccupata della deriva autoritaria di cui blatera oggi, ma proponeva come una riforma del premierato identica a quella che ha in mente l'esecutivo di Giorgia Meloni. L'altra sera il direttore della Verità Maurizio Belpietro, davanti alle telecamere di Cartabianca e a un'attonita Bianca Belinguer, ha smascherato l'ennesima ipocrisia dell'opposizione, agitando un libretto verde datato 1994 distribuito dal quotidiano L'Unità, allora diretta da Walter Veltroni, una novantina di pagine piene a suo dire di «perle dimenticate» su autonomia e premierato.
Che il premier forte sia patrimonio del centrosinistra, non solo una boutade elettorale, lo ricorda al Giornale il costituzionalista Alessandro Sterpa, autore di Premierato all'italiana (Utet) nelle librerie da metà luglio. Nelle tesi dell'Ulivo di Romano Prodi (sul sito www.perlulivo.it) si auspica «un primo ministro investito in seguito al voto di fiducia parlamentare in coerenza con gli orientamenti dell'elettorato», con tanto di nome sulla scheda e «lo scioglimento in tempi brevi della camera politica e il ricorso a nuove elezioni» in caso di cambiamento della maggioranza. Sempre nel 1995 Achille Occhetto firmava un articolo dal titolo Sinistra, esci dalla palude, in cui si spiegava tecnicamente anche la legge elettorale: «La scelta del premier è ben altra cosa del presidenzialismo. I cittadini - spiegava - votano i candidati nei collegi e contemporaneamente il premier a loro collegati. Maggioranza e premier sono reciprocamente legati, stanno e cadono insieme».
«C'è dell'altro - ricorda ancora Sterpa - nella relazione alla fine dei lavori della Bicamerale di Massimo D'Alema (era il 1997) Cesare Salvi precisò che il semi-presidenzialismo (quindi una riforma ben più impattante sul presidente della Repubblica di quella proposta oggi) fosse una scelta dovuta anche al fatto che ormai tutte le grandi democrazie occidentali funzionano formalmente o di fatto sulla base del principio di leadership personale», senza preoccuparsi troppo delle ricadute sul Quirinale. Un processo legato a due direttrici: «Le esigenze di stabilità e responsabilità dell'esecutivo» e le trasformazioni sociali «che premono per cambiare le vecchie forme di rappresentanza».
Anche sulla riforma dell'Autonomia la memoria del Pd è cortissima. A complicare le relazioni è stata la frettolosa riforma del Titolo V della Costituzione voluta da Massimo D'Alema e firmata da Giuliano Amato, approvata nel 2001 per soli tre-voti-tre in più. Una polpetta avvelenata per tentare gli elettori della Lega «costola della sinistra», (D'Alema dixit).
Un flop elettorale costato una serie innumerevole di conflitti e impugnazioni. La prima lacrima di coccodrillo arrivò nel 2004 da D'Alema, primo firmatario: «Sbagliammo a fare la riforma del titolo V con tre voti di maggioranza, ma io non lo condivisi». L'ennesima riforma a loro insaputa.
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