Ci sono cause che, chissà perché, non fanno breccia nei cuori dei maestri di indignazione. Le platee occidentali si scaldano per i diritti umani di chicchessia, specialmente se vissuto qualche secolo fa e quindi non si può più fare nulla: parlare infatti costa pochissimo, nei Paesi in cui la censura è solo sbandierata, ma inesistente nei fatti; agire, invece, comporta delle responsabilità e delle fatiche. Eppure si invocano proteste e sollevazioni per qualsiasi minoranza, ma certe parole non si sentono mai. O, nei rari casi in cui si sentano, non suscitano lo sdegno che ci si aspetterebbe.
Per esempio, le donne afghane. L'altro giorno, al Consiglio per i diritti umani dell'Onu, Laila, una giovane afghana sotto anonimato, ha raccontato in un video come sia la sua vita sotto i talebani: una «schiavitù». Nella registrazione, Laila è nascosta: il suo volto è invisibile, perché le sue parole, quelle sì, sono pronunciate al prezzo della vita. Anche se poi la vita rischia di perderla lo stesso per un nonnulla, proprio perché abita in Afghanistan e lì, come ha spiegato, quando gira per le strade, coperta di nero da capo a piedi, ha sempre paura di essere catturata da qualche agente, e si chiede: «Mi uccideranno?». Molte si uccidono da sole: il tasso di suicidi fra le donne afghane è altissimo, soprattutto a causa delle continue violenze subite dai mariti.
Laila dice di essere confinata a casa, con sua madre, perché non può studiare, visto che i talebani hanno vietato le scuole superiori e le università alle studentesse: «Questo non è il mio futuro. Ho perso tante occasioni nella vita... Mi sento depressa e senza alcun aiuto. Ma non mi arrendo, mai. Voglio un futuro più luminoso. Voglio diventare una leader: la voce di tutte le ragazze afghane». Il relatore speciale delle Nazioni unite sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan Richard Bennett ha aggiunto che «le violazioni contro le donne e le ragazze in Afghanistan sono così gravi che possono equivalere a crimini contro l'umanità, compresa la persecuzione di genere». Ha parlato di «apartheid di genere» chiedendo che sia codificata come «crimine contro l'umanità e violazione dei diritti umani, definiti in modo inclusivo». Insomma, le donne afghane non sono forse una ottima causa da difendere? Primo: sono donne, «minoranza» per eccellenza (di genere). Secondo: subiscono violenze continue, da parte dei loro mariti, dei loro padri, dei loro fratelli e, più di tutto, da parte dello Stato, nella veste dei talebani e della sharia da loro imposta. Terzo: sono, spesso, anche rifugiate (i rifugiati afghani sono centinaia di migliaia), al punto che il capo missione della squadra olimpica dei rifugiati per i Giochi di Parigi è una ciclista afghana, Masomah Ali Zada, che a casa sua subiva minacce perché andava in bicicletta. Forse vale la pena ripeterlo, con le sue parole (apparse sull'Osservatore romano): «Per una donna andare in bici in Afghanistan non è considerato normale: si potrebbe addirittura dire che è proibito». Come frequentare l'università, andare nei parchi pubblici, indossare una minigonna o mostrare i capelli... Ma un certo femminismo tace. Forse adora strombazzare solo per certe donne: quelle che vivono nei Paesi occidentali, per le quali invocano la parità grammaticale, un principio ambitissimo, fondamentale e per difendere il quale è necessario grande coraggio.
Forse l'«apartheid di genere» non scalda i cuori di chi preferisce coprire sotto il sommo valore della «diversità culturale» la disuguaglianza, la discriminazione, la violenza e la totale mancanza di libertà che le donne afghane subiscono ogni giorno. In nome dei sommi valori, del resto, sono sempre stati perpetrati i crimini più aberranti.
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