George H. W. Bush è morto a 94 anni, capostipite di una dinastia di protagonisti della politica americana e del partito repubblicano, quel Grand Old Party che oggi, rispetto agli anni '80 e '90 in cui è stato presidente e vicepresidente degli Stati Uniti, ha un altro volto. Non fraintendiamoci, con il tempo e con le congiunture interne e internazionali che cambiano, è naturale che un partito non resti immutato.
Valori e battaglie ideali appaiono gli stessi: libertà di mercato, libertà d'impresa, deregulation. Eppure, il Grand Old Party ha subito una trasformazione profonda. La prima impressione è che il cambiamento sia avvenuto con l'era di Donald Trump, nuovi toni, aggressività, spregiudicatezza. La trasformazione invece comincia da lontano, quando c'è la consapevolezza che per conquistare la Casa Bianca bisogna corteggiare l'ala destra del partito e i movimenti religiosi.
Il primo strappo, se così si può chiamare, avviene proprio con Bush figlio che, memore della sconfitta del padre alle presidenziali del 1992, intraprende il cammino della radicalizzazione assieme al consigliere Karl Rove. La politica estera è dominante, ma lo era sempre stata anche se Reagan e Bush Sr si muovevano con maggior cautela. D'altronde è proprio con Bush Sr e con Reagan che si sgretola l'Urss ed è sempre Bush Sr che in pochi giorni mette in piedi un piano internazionale di aiuti per salvare Mosca dal collasso. Eppure, nonostante i risultati, i toni di velluto non pagano. Bush padre perde le presidenziali non per la statura dell'avversario, Bill Clinton, ma per la corsa del miliardario indipendente Ross Perot che conquista il 19% dei consensi. Il Reform Party di Perot raccoglie proprio l'ala di scontenti del partito e di elettori che sperano di cambiare l'establishment. Un appuntamento rinviato solo di qualche anno, al quale si presenterà puntuale Trump, che in passato aveva appoggiato Perot e il Reform Party.
Nel corso degli anni l'ala moderata del partito repubblicano cede il passo a quella radicale. Nascono i Tea Party nel 2009, marcatamente populisti e ultra conservatori in campo fiscale, economico, religioso, ambientale e sociale. Ci sono i neo conservatori, che propugnano una politica estera interventista, comprese le azioni militari preventive anche per esportare la democrazia. Insomma, il partito cambia.
Il vecchio Bush, invece, rappresentava la real politik, il presidente pronto alla guerra solo se diventava inevitabile e se si erano percorse tutte le strade possibili. Ma per l'ala destra del partito la sua è soltanto debolezza, il restare legati vecchi schemi. Bush figlio va alla guerra prima in Afghanistan, poi in Iraq. Un conflitto, quest'ultimo, avversato tenacemente ma inutilmente dal padre, accusato sottovoce di non aver saputo a suo tempo sfruttare il crollo dell'Urss.
Da allora i conflitti si sono susseguiti:
Afghanistan, Iraq, Siria, Libia. Tutti un insuccesso. Le uniche vittorie le ha assaporate proprio Bush padre, prima nella Guerra Fredda poi in quella del Golfo, l'ultimo trionfo militare degli Stati Uniti. Ventisette anni fa.
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