Contrordine, compagni. Mentre nel variegato mondo del centrosinistra l'esito dei referendum in Veneto e in Lombardia scatena reazioni a macchia di leopardo che vanno dal negazionismo spinto ai fulminati del giorno dopo sulla via di Catalogna, nel confuso dibattito irrompe il segretario dem, Matteo Renzi, che spiazza tutti, persino quanti nel governo - per esempio il ministro delle politiche Agricole Maurizio Martina, vicesegretario del Pd - si erano azzardati a mettere le mani avanti, ammonendo che «sulla fiscalità non si tratta». E Renzi, invece, arriva e spariglia di giochi. «Il risultato in Lombardia e, soprattutto, in Veneto non va minimizzato», esordisce. Concede le critiche d'ordinanza sui «quesiti banali» o sulla gestione «goffa» dei dati sull'affluenza in Lombardia, ma poi affonda il colpo: «La sostanza è che tanta gente, soprattutto in Veneto, ha votato per dare un messaggio». Un «messaggio serio» che, per il segretario Pd, è «più autonomia e più efficienza, maggiore equità fiscale, lotta agli sprechi a livello centrale e periferico». E dunque, ringhia Renzi, si prenda atto «che in Italia esiste una gigantesca questione fiscale». E che «ridurre la pressione fiscale» è «la vera priorità». In fondo siamo in campagna elettorale, e l'ex rottamatore per l'occasione rottama appunto le tasse, proponendo «un accordo delle forze politiche» per la prossima legislatura che porti a una «riduzione annuale delle tasse per una cifra che può variare tra i 30 e i 50 miliardi di euro». L'uscita, come detto, prende in contropiede i tanti che, nel centrosinistra, si erano espressi a caldo. Molti, come ha ironizzato il presidente della commissione Bilancio della Camera, Francesco Boccia del Pd, «svegliandosi federalisti», ma lo stesso Boccia in fondo invita a rispettare il «coordinamento della finanza pubblica dello Stato». Qualcuno, come il deputato del Pd Antonio Misiani, ammette la vittoria referendaria in Veneto ma si «consola» col «mezzo flop» del voto lombardo, e gli fa eco il senatore Franco Mirabelli, che giudica «inutile» la consultazione a causa dell'affluenza sotto il 40 per cento, e pazienza per gli oltre tre milioni di cittadini che sono andati a votare. La vicepresidente dem, Barbara Pollastrini, prova a dare un colpo al cerchio («Maroni ha poco da brindare, ancora più convinta della mia astensione») e uno alla botte, ammettendo che «sinistra e Pd» sono non pervenuti, e che con il referendum «qualcosa è accaduto e peserà sul Paese e forse anche sulla nostra immagine in Europa». Insomma, spiega l'esponente Pd, «sta al governo prendere subito una iniziativa e rispondere alla spinta per un regionalismo differenziato».
E a proposito di ambivalenza, ecco i sindaci lombardi del Pd che si erano schierati per il sì criticare Maroni per un referendum «rinunciabile», prendersi il merito di aver invitato a votare il proprio elettorato (pure Giuseppe Sala che però si è astenuto, come buona parte della giunta) e chiedere di salire sul carro del «perdente», intimando al Governatore «un percorso serio» di coinvolgimento.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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