Il giorno dopo le bombe russe sul porto ucraino di Odessa, si tenta comunque di avviare nei prossimi giorni il processo di esportazione via mare dei cereali ucraini, come da impegni che erano stati presi solennemente tre giorni fa a Istanbul da Mosca e Kiev sotto gli auspici della Turchia. Dopo l'assurda smentita di sabato da parte russa, ieri la portavoce del ministero degli Esteri Zakharova ha dovuto fare una imbarazzante marcia indietro: siamo stati noi - ha ammesso di fronte all'evidenza che non poteva essere stato nessun altro - ma i nostri missili hanno colpito obiettivi militari nel porto di Odessa e non i depositi di grano.
In realtà, il senso della provocazione rimane quello percepito dagli osservatori internazionali: un segnale di disprezzo verso l'Ucraina e non solo, oltre al messaggio che gli accordi per il grano (per quanto fragili come questi sviluppi dimostrano) non implicano alcun passo avanti verso la pacificazione con Kiev.
Si tenta dunque di andare avanti. Il ministro ucraino Oleksandr Reznikov, che venerdì ha siglato l'intesa di Istanbul, assicura che «nonostante gli attacchi russi i preparativi tecnici per l'avvio dell'export dai nostri porti (che sono tre in tutto: oltre a quello di Odessa, i due minori di Chornomorsk e di Yuzhne) continueranno».
Da parte russa, il ministro degli Esteri Sergei Lavrov - partito ieri per un importante viaggio in quattro Paesi africani - ha ribadito l'impegno al rispetto degli obblighi presi a Istanbul, ma sta cercando di collegarlo direttamente a un altro obiettivo che sta a cuore al Cremlino (cercando tipicamente al tempo stesso di negarlo). «Rispetteremo gli obblighi indipendentemente dalla revoca delle sanzioni occidentali - ha detto il capo della diplomazia russa -, che pure non imploriamo». In realtà, è vero il contrario. Lavrov sta da tempo cercando di far sì che le distinte questioni dell'export di grano ucraino e dei cereali russi (che come quelli ucraini sfamano decine di milioni di persone in Medio Oriente e in Africa) siano risolte in un unico pacchetto. Il suo obiettivo è proprio quello di ottenere dall'Onu che l'Occidente ritiri le sue «sanzioni illegali» che ostacolano l'export via mare russo: quelle sulle assicurazioni sui carichi sulle navi, sullo scalo di navi russe in porti stranieri e sull'accesso di navi straniere nei porti russi.
Lavrov sostiene che dopo la sua firma sull'intesa di Istanbul, il segretario generale dell'Onu Guterres sia vincolato a ottenere la rimozione di quelle sanzioni e «spera che riuscirà a farlo». È anche importante notare che - la fonte è lo stesso Lavrov - a Istanbul sarebbe stato convenuto che agli ucraini spetterà di «ripulire le loro acque territoriali e permettere così la partenza delle navi dai loro porti», mentre in alto mar Nero la sicurezza dei convogli sarà garantita dalle navi militari turche, russe e di una terza parte ancora da individuare.
In verità, gli ucraini non hanno promesso di «ripulire» nulla, perché le mine che essi stessi hanno disposto sono garanzia di protezione del porto di Odessa dagli attacchi via mare russi: semmai, il loro impegno è di guidare le navi commerciali attraverso percorsi sicuri.
Ieri, intanto, Lavrov è arrivato al Cairo. In Egitto, principale partner commerciale della Russia in Africa che si è guardato dal partecipare alle sanzioni contro Mosca, cercherà di rassicurare sul temuto blocco dell'export di cereali da Russia e Ucraina.
Dopo l'Egitto, Lavrov visiterà Etiopia, Uganda e la Repubblica democratica del Congo. Va ricordato che il 40 per cento del grano consumato in Africa arriva da Russia e Ucraina e che la crisi innescata dalla guerra ha fatto salire di molto i prezzi, mettendo quel continente in gravi difficoltà.
Ma la missione africana di Lavrov ha un più ampio significato geopolitico. Putin tiene molto al rafforzamento delle posizioni di Mosca nel Continente Nero e la sua diplomazia lavora per convincere i Paesi africani a schierarsi contro l'Occidente.
Mosca promette di aiutarli a «completare il processo di decolonizzazione» e ricorda i suoi buoni rapporti con l'Africa fin dai tempi dell'Urss. In gran parte del continente, però, è vivo il ricordo dei rovinosi conflitti suscitati in Africa dalla guerra fredda (ad esempio in Angola, Mozambico, Etiopia e Somalia) e l'idea di tornare a schierarsi non convince.
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