Detta così, a bocce ferme, si esce con un po' di amarezza e un po' di vergogna dalla vicenda di cui è stata protagonista (secondo me incolpevole) l'atleta italiana Angela Carini, che come tutti sanno si è ritirata dal torneo olimpico di boxe pochi secondi dopo l'inizio del suo match con l'algerina Imane Khelif, già al centro di molte polemiche a causa del livello di testosterone considerato fuori norma, e che le dava un aspetto androgino. Questa atleta - anche questo è arcinoto - era stata già estromessa dai mondiali di pugilato, quando a decidere dell'ammissibilità o meno di un atleta era un comitato (l'IBO, International Boxing Association) di emanazione russa. Il CIO, ossia il Comitato Olimpico, in seguito ha rotto i rapporti con l'IBO, ritenendo discriminatorio il suo comportamento e ammettendo perciò la ragazza algerina alla manifestazione. Si profila, insomma, un problema più politico-ideologico che sportivo, e già questo mette un po' di tristezza.
Voglio ripetere che Imane Khelif non è transgendered, è una donna e come tale può partecipare al torneo olimpico secondo le regole del CIO. Combatte da diverso tempo, il suo ranking è abbastanza alto, la sua percentuale di vittorie per ko non è molto alta e nel suo curriculum figurano nove sconfitte.
Si è segnalato che in Algeria il cambiamento di sesso è proibito, ma forse sarebbe il caso di chiedersi se siano proibite anche le iniezioni di testosterone, come succedeva (i vecchi lo ricorderanno) ai tempi dell'Urss e della Germania Est. Mi è capitato di leggere la storia di quegli atleti, molti dei quali sono andati incontro a conseguenze fisiche disastrose e a una morte prematura.
Sarebbe il caso di chiedersi, in altre parole, se tutte le federazioni nazionali siano in regola su questo aspetto e se la sorveglianza sui metodi sia adeguata: gli anni del dott. Fuentes appartengono a un passato che tutti vorremmo dimenticare. Questa però non è più una questione politico-ideologica. Si tratterebbe solo di salvaguardare la salute degli atleti (in questo caso, tanto la nostra Angela quanto Imane), ma non sembra che su questo punto si sia discusso molto.
Ciò detto, se non vogliamo entrare in discussioni molto antipatiche, va da sé che, se la federazione italiana decide di prendere parte alle Olimpiadi, deve anche accettarne le regole. Qui invece si profilano le questioni ideologiche: ci si chiede per esempio se la rottura tra IBO e CIO sia stata digerita, data la situazione politica attuale, o se abbia lasciato cicatrici a livello di dirigenza. (E non critico le parole di Giorgia Meloni, che sono le parole istituzionali di un primo ministro, e che probabilmente avrei detto anch'io se fossi stato al suo posto).
Le parole pubbliche di Angela Carini dopo il ritiro sono molto significative. Prudentemente, la ragazza ha detto di avere ricevuto un colpo forte e di avere sentito un dolore acuto al naso. Angela è una bella ragazza, e si può capire che abbia temuto che colpi come quello potessero produrre in lei danni gravi. Dice di avere sentito molto male. Ora, poiché è difficile che i pugni non facciano male, voglio pensare che si sia resa conto all'improvviso di non essere tagliata per il pugilato: il grande Alì diceva che, se uno vuole fare il pugile, deve sapere bene quello che è disposto a sacrificare, se una mano, il naso oppure la vita. Perciò ben venga un colpo che, senza distruggere una persona, la aiuti a capire ciò che è meglio per lei.
Al contrario, sarebbe triste se le parole di Angela fossero solo un modo concordato per uscire da una situazione imbarazzante. Anche qui, la ragazza non sarebbe per nulla colpevole. Colpevole sarebbe, se mai, la federazione pugilistica italiana se avesse aderito al torneo olimpico senza averne letto e approvato i principi e le condizioni: se io aderisco ai principi dell'IBO, poi sconfessato dal CIO, secondo me sarebbe più onesto non iscriversi al torneo olimpico. Un clima simile (dove è possibile che volino molte parole a sproposito) non consente agli atleti la serenità necessaria per affrontare prove difficili e pericolose come un torneo di boxe.
Il vero problema, drammatico, è un altro. E a parlarne è un appassionato di boxe come il sottoscritto. La boxe ha prodotto e produce campioni straordinari, veri e propri artisti che io, lo ammetto, ammiro molto. Ma la domanda è: la boxe è uno sport? O è una forma di violenza canalizzata, un rito di passaggio primitivo, come la corrida?
La boxe è il solo sport (chiamiamolo così) che ammette la morte nelle sue regole. Si può morire in qualunque sport, questo è vero, ma solo in seguito a errori, irregolarità o fatalità. Ma solo la boxe può uccidere nel rispetto delle regole, magari in seguito a un colpo bellissimo, a un vero lampo di genio.
Le parole di Alì sono terribili: si sale sul ring solo se si è ben consapevoli di poterci lasciare la vita.
La mia domanda allora si completa: un paese civile, che vuole tutelare la vita dei suoi cittadini, può accettare come legittima una situazione così equivoca, dove ragazzi belli e sani, senza pensieri suicidi, non affetti da malattie terribili (che possono giustificare se non la legittimità almeno il desiderio di un suicidio assistito), spesso padri e madri di famiglia, salgono su un ring e mettono in gioco così la loro esistenza?
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