Un ritorno in aula che sa di normalità

Sfilano, si incontrano, senza stringersi troppo, quasi stupiti di trovarsi di nuovo lì, davanti a una scuola che per un attimo sembra quella di un tempo, quando il contagio era una parola lontana

Un ritorno in aula che sa di normalità

Sfilano, si incontrano, senza stringersi troppo, quasi stupiti di trovarsi di nuovo lì, davanti a una scuola che per un attimo sembra quella di un tempo, quando il contagio era una parola lontana. È il giorno del ritorno in classe e gli studenti sono quattro milioni. Il numero non dice tutto. Tutti hanno un volto, un viso, un nome e una storia. Ti viene da contarli uno a uno. Non sono un'immagine che rimbalza da case sparse, da camerette disordinate, con gli occhi gonfi e il respiro di chi si è appena svegliato. Non è una connessione che spesso sfida la fortuna e non è un computer da dividersi in troppi. Non è una scuola che faticavi perfino a immaginare, fatta di parole e silenzi e sguardi dietro gli schermi. In questo lunedì di settembre la realtà si riprende un po' di spazio e sposta il virtuale un giorno più in là. Non è ancora la normalità ma per ora un po' ci assomiglia. La speranza è di non cascare in un altro inverno con l'epidemia che ti respinge dentro. I professori mostrano il green pass. Il sistema di controllo sta funzionando. Quelli senza passaporto sono pochi. Gli studenti appaiono spaesati. È come se avessero perso l'abitudine. Quanto durerà? È la domanda che ricorre. Non ci sono risposte certe. Si va avanti giorno per giorno. Dad è una parola brutta. È stata necessaria, ma la didattica a distanza è un succedaneo. Gli abbiamo già rubato un'esperienza che non tornerà più. Lo sanno anche loro. Lo sa anche chi ha vissuto questi due anni come un liberi tutti, come la risposta di Pinocchio alle prediche del grillo parlante. «Canta pure, grillo mio, come ti pare e piace: ma io so che domani, all'alba, voglio andarmene di qui, perché se rimango qui, avverrà a me quel che avviene a tutti gli altri ragazzi, vale a dire mi manderanno a scuola, e per amore o per forza mi toccherà studiare». Sono passati due inverni e tutti hanno capito che il virus ha chiuse le porte e le finestre e reso l'aria pesante e le strade vuote. Nessuno vuole tornare indietro. C'è una voglia disperata di normalità, di noia quotidiana, di interrogazioni a sorpresa, di teste basse con la speranza che non tocchi a te, di fughe clandestine per un giorno di festa non previsto dal calendario. Il ritorno alla normalità non fa differenze tra buoni e cattivi. C'è posto per tutti, soprattutto per quel Franti disegnato da De Amicis e elogiato da Umberto Eco.

Il sogno è che questi due anni siano serviti davvero a qualcosa. La normalità non è un ritorno al passato. Non è la stessa scuola di due anni fa. Ora sappiamo cosa significa perderla o viverla per corrispondenza, sparpagliati, ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi.

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