È un passaparola in cui, come quando si era bimbi, difficilmente alla fine la parola giusta sarà riportata come quando veniva sussurrata. Il Pakistan è così lontano, integralista (islamico) eppure altrettanto vicino in questo mondo liquido dove tutto si miscela, edulcorato, dove la verità resta, forse come sempre è nella storia umana, un'illusione.
La morte di Sana Cheema, nata in un villaggio semisperduto del sesto stato Paese più popolato (e arretrato) del pianeta, probabilmente rimarrà un mistero. Lei aveva quasi 26 anni, da ormai uno era italiana. Qui viveva, qui aveva studiato e adesso lavorava. Una bella ragazza, solare e con un fidanzato italiano. In Pakistan era tornata per vedere la famiglia- non tanto i suoi genitori così radicalizzati, da farla fin da piccola litigare per non mettere veli anche quando tutti abitavano in Italia - ma per conoscere il figlio da poco nato della sorella.
Si è scritto che sarebbe stato proprio il padre, Gulam Mustafà, una faccia dura scolpita da un paio di baffoni pesanti come lo sguardo, a ucciderla con l'aiuto di un altro figlio. Sgozzandola, per ripudiare col sangue quel modo di vivere troppo occidentale di Sana. Quel velo che non lei non aveva mai voluto indossare glielo hanno messo per il funerale.
Ma adesso la sua fine si tinge di giallo. Nessuna notizia ufficiale, a parlare sono sempre amici e conoscenti, immigrati coetanei trapiantati in Italia, voci di una comunità in realtà difficile da integrare. O che semplicemente forse non lo vuole come invece desiderava questa ragazza che a Brescia aveva aperto un'agenzia di pratiche automobilistiche. Che si era presa la patente, che lavorava puntando su connazionali e stranieri vari alle prese con la nostra burocrazia.
Sana, per un giorno, è diventata simbolo di emancipazione, vittima di un Medioevo islamico incapace di evolversi. Adesso tutto sembrerebbe ridimensionarsi. Sarà vero. Fatto sta, che uno dei tanti pifferai, presunti amici della ragazza, racconta che padre e fratello della «vittima» siano stati già scarcerati. Perché Sana sarebbe morta a causa di un infarto. Insomma nessun delitto, niente violenza. Addirittura si mette in discussione che avesse un fidanzato italiano e contraria agli (ab)usi tradizionali avesse rifiutato un matrimonio combinato.
«Sana era italiana. Si sentiva italiana. Voleva sposare un italiano e fare la sua vita qui», racconta alla Stampa, Zeshan uno dei suoi amici pachistani. «Era partita per Shadiwall dove era nata, alla fine di gennaio. Mi aveva detto che sarebbe stata via per un paio di mesi. Voleva andare a trovare la sorella Saba che aveva avuto una bambina da poco. Con il padre non andava d'accordo. Lui non voleva che vestisse all'occidentale. L'anno scorso era anche finita al pronto soccorso perché si era picchiata con lui. Gli teneva testa. Gli rispondeva».
Tre anni fa, ancora prima di ottenere il passaporto italiano, la giovane, era diventata «grande».
Dietro l'angolo in via Berchet, a Brescia, aveva aperto la sua attività. Aiutava i privatisti a preparare l'esame di guida. Faceva da interprete, si metteva in fila alla Motorizzazione con le pratiche per le immatricolazioni e i cambi di proprietà. Due mesi di Pakistan l'hanno uccisa.
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