Fermi da decenni e compressi dall'inflazione, i salari italiani sono tornati al centro del dibattito politico. Il tema è tenere a galla il potere d'acquisto delle famiglie. Il Giornale ha fatto il punto della situazione con Francesco Seghezzi, esperto di sociologia del lavoro e relazioni industriali e presidente di Fondazione Adapt, associazione fondata da Marco Biagi che conduce studi e ricerche sul mondo del lavoro.
Il Commissario Ue per il Lavoro, Nicolas Schmit, ha detto che i salari dovrebbero essere agganciati all'inflazione. Lei cosa ne pensa?
«Se si fa riferimento a interventi duraturi, in Italia abbiamo già avuto l'esperienza della scala mobile che portò ad alimentare una spirale inflazionistica. Se, invece, parliamo di un intervento solo per la situazione contingente, allora ci si può ragionare. Noi abbiamo una crescita dei prezzi determinata da ragioni geopolitiche, che creano una distanza tra domanda e offerta di beni. Il governo ha provato a intervenire con i 200 euro una tantum. Sappiamo che c'è la discussione in corso sul cuneo fiscale, ma ci sono altri mezzi come, per esempio, il rinnovo dei contratti collettivi».
Non crede sia necessario un intervento strutturale?
«I salari crescono se cresce la produttività di pari passo con gli investimenti in innovazione. In Italia abbiamo una produttività bassa, specie nel settore dei servizi, dove c'è poca innovazione e si lavora molto sui servizi alla persona e non caratterizzati da alto valore aggiunto. Bisognerebbe attrarre investimenti e fare più servizi di consulenza alle imprese, connessi all'ambito digitale. Credo sia questa la strada nel lungo periodo».
E il taglio del cuneo fiscale chiesto da Confindustria, potrebbe alimentare i salari?
«Dipende da come lo si fa. Il vero tema è quanto costa un taglio significativo e strutturale, che non può essere l'unica soluzione. Ci sono Paesi che hanno il cuneo fiscale più alto del nostro e una situazione migliore. Il nostro problema è che abbiamo un grande debito, ma non lo abbattiamo facendo ricorso a una maggiore produttività e lavorando sull'emersione del lavoro irregolare, ma tassando di più chi già contribuisce alla fiscalità generale».
I salari bassi sono anche frutto di un'Università che non produce laureati con competenze di alto livello?
«Oggi il dibattito è concentrato su lavori con competenze medio-basse, dove l'Università c'entra poco. Si parla di ristorazione, hotel, stagionali, balneari. Su questo fronte la mancanza di persone si basa sulle aspettative di quello che viene offerto. In questi anni è passato il messaggio che camerieri, lavapiatti e inservienti vivano in situazioni di irregolarità e paghe basse.
Mentre, se parliamo del taglio medio-alto di competenze, l'Università può essere responsabile di fare una didattica autoreferenziale e poco integrata con il mondo del lavoro. Detto questo, le aziende devono fare la loro parte con tirocini, apprendistati e più collaborazioni con gli istituti tecnici».
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