E finisce così, in un vertiginoso ritorno al passato remoto, tra bandiere del Pci tirate fuori dalle soffite che garriscono al vento, e gigantografie in bianco e nero del defunto leader comunista Berlinguer. «Enrico è patrimonio di tutti», grida dal palco di Padova Elly Schlein, «un punto di riferimento irrinunciabile che appartiene alla storia migliore d'Europa e ci indica la strada da seguire». L'«eurocomunismo»? Chissà.
É la manifestazione di chiusura della campagna elettorale europea del Pd, ma ha il sapore nostalgico di un amarcord, un rito magico attorno a un'icona sacra («Grazie Berlinguer, viva Berlinguer», grida la leader) che cancella in un attimo decenni di faticoso cammino di emancipazione della sinistra italiana dal nefasto fallimento comunista. Finisce così, con un liberatorio tuffo acritico nel passato, il frenetico tour elettorale di Schlein: ora non resta che attendere i frutti.
Una campagna in cui quasi tutti i leader hanno parlato poco d'Auropa e pensato molto agli equilibri politici interni. Schlein la ha impostata tutta sul proprio ruolo di anti-Meloni, inseguendo il famoso faccia a faccia che poi non si è tenuto, e duellando a distanza con la premier su ogni tema: dalla sanità ai campi per migranti in Albania alla difesa della Costituzione dalle riforme governative. Con il ricorrente sottotesto del fascismo alle porte da contrastare. Così, per qualche settimana, il volto dello Scurati censurato ha affiancato quello di Berlinguer nell'iconografia elettorale. Con qualche incidente di percorso: la «contro-manifestazione» annunciata per il 2 giugno e poi (grazie anche alle pressioni interne e alla disapprovazione del Colle) derubricato a comizio periferico. Oppure il manifesto anti-Vannacci («Che boomerang», commentò la candidata Pd Elisabetta Gualmini) che finì dritto sulla t-shirt del generalissimo salviniano. La battaglia di Elly, del resto, è tutta interna: consolidare la propria leadership grazie alla percentuale e alle preferenze personali, e poi sedersi sì al tavolo della coalizione con «Cinque Stelle, Avs e gli altri» (per altri Schlein intende i centristi), ma assicurandosi il posto di capotavola, da cui dare le carte. In attesa di diventare la candidata premier anti-Giorgia. Quindi l'obiettivo è accorciare la distanza numerica dal partito della premier, ma anche allungare più possibile quella con Conte, relegandolo a comparsa. E Conte soffre assai la questione. Ieri è arrivato a affermare che votare M5s è l'unica via «per scongiurare la Terza Guerra Mondiale e evitare che i nostri figli vadano a combattere». Stiamo freschi. Conte ha battuto a tappeto il Sud e non si è fatto vedere poco o nulla al Nord, dove sa di aver poco da pescare. Ma la sua narrativa mirabolante su 110% e redditi di cittadinanza è ormai arrugginita, e dunque prova a sostituirla, novello Stranamore, con l'«arma fine-di-mondo» che solo M5s può disinnescare.
Ha girato in solitaria per teatri, scopiazzando alla bell'e meglio dagli eventi (di qualche lustro fa) di Steve Jobs. Il quale però aveva inventato lo smartphone, non il 110% per rifarsi la villetta a spese dei contribuenti. E i discorsi glieli scriveva Aaron Sorkin, non Rocco del Grande Fratello.
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