Sciopero e «intifada». Eccola, la «rivolta sociale» sognata dalla sinistra estrema. Il giorno da segnare con un cerchietto rosso sul calendario è il 29 novembre: sciopero generale. Sarà quello il punto di caduta delle proteste.
La Cgil e Uil ci sono (la Cisl no), ci sono sindacati di base, e ci saranno anche i movimenti pro Palestina, cioè i militanti anti-Israele, lesti come non mai a salire sul carro dell'agitazione organizzata.
Vari i pretesti, varie le piattaforme: la manovra economica, il decreto sicurezza, l'emergenza climatica. E ovviamente la pace, che sta a cuore a tutti, dai Cobas alle minoranza politicizzate delle tende universitarie, dai centri sociali alle frange della «militanza antisionista», nuova categoria politica che evoca fantasmi del passato.
La pace, e il «no al genocidio», sono le parole d'ordine ipocritamente umanitarie in nome della quale i militanti pro-Pal sono pronti a minimizzare, se non a esaltare, quella che chiamano la «resistenza palestinese». E di cosa si tratti lo abbiamo visto con gli attacchi di Hamas contro Israele.
I Giovani palestinesi si sono fatti conoscere per la manifestazione in vista del 7 ottobre - finita male. Ora hanno proclamato - in italiano, in inglese e in arabo - il «loro» sciopero generale. «Come organizzazioni palestinesi in Italia - dicono - chiediamo a tutti i lavoratori e sindacati di scioperare il 29 novembre per fermare il genocidio in Palestina e l'aggressione sionista in Libano. Dobbiamo opporci al crescente militarismo dell'Europa e dell'Italia e alla legge repressiva del Ddl 1660, che mira a soffocare la resistenza alla guerra e allo sfruttamento». L'appello è rivolto «a tutti i sindacati e a tutti i lavoratori»: «Dobbiamo unirci nell'azione collettiva fino a che non venga fermato il genocidio di un popolo che chiede giustizia e libertà».
Manifesteranno il 30. Le piazza protestatarie fisicamente potranno essere diverse, ma si fondono nell'antagonismo. E se i gruppi antagonisti sono le «mosche cocchiere» di questo movimentismo, le forze ufficiali della sinistra e del sindacalismo istituzionale non dicono un «no», non hanno alzato alcun argine, non hanno condannato gli eccessi verbali, anzi hanno (irresponsabilmente e sostanzialmente) aperto le porte.
Pas d'ennemis à gauche, nessun avversario alla propria sinistra. E il risultato è questo: una saldatura dei movimenti di protesta che si uniscono contro «le destre», contro il governo, contro il capitale, e chi più ne ha più ne metta. «Io credo che sia arrivato il momento di una vera e propria rivolta sociale perché avanti così non si può più andare» ha detto il segretario della Cgil, Maurizio Landini, una settimana fa, a margine dell'assemblea generale a Milano a proposito dello sciopero, indetto giorni fa per il prossimo 29 e confermato ieri per l'incredulità del ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti. «Per noi - ha spiegato Landini - lo sciopero non è che l'inizio di una mobilitazione e di una battaglia perché il nostro obiettivo non è semplicemente migliorare o cambiare la legge di bilancio, il nostro obiettivo è cambiare e migliorare il nostro Paese».
Poi la galassia del sindacalismo di base - Cub, Sgb, AdL Cobas, Confederazione Cobas, Clap, Sial Cobas - ha annunciato la sua protesta per «contrastare in primis le politiche di austerity del Governo Meloni, a cui si chiede di interrompere il sostegno alle politiche di
guerra, in Europa e in Medio Oriente, e alla conseguente economia di guerra».Infine ecco il movimento dei giovani arabi: «La nostra resistenza è una chiamata all'azione: alziamo la voce e fermiamo la macchina da guerra».
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