Se alla fine sono tutti solo ominicchi

Un agente per braccio, la testa china per portare lo sguardo in basso, niente manette

Se alla fine sono tutti solo ominicchi

Un agente per braccio, la testa china per portare lo sguardo in basso, niente manette. Lo hanno portato fuori dalla clinica «La Maddalena» come avrebbero portato fuori uno che ha cercato di non pagare una radiografia, o che ha assestato un ceffone al medico di turno. Niente di spettacolare. Da nessun punto di vista. E invece, in mezzo ai due carabinieri, c'era il boss Matteo Messina Denaro, latitante da trent'anni, responsabile di alcune tra le stragi più efferate e perfino di aver fatto sciogliere un bambino nell'acido. Non sappiamo dire cosa ci aspettassimo di vedere, ma non quello che abbiamo visto.

Quei lineamenti quasi inesistenti sotto al berretto di lana, quella fisicità modesta e imprendibile, quasi color flanella. Sarà stato per questo che è riuscito a nascondersi trent'anni sotto agli occhi di tutti. Per questo e per la montagna di denaro sulla quale ha potuto contare «Diabolik», come si faceva chiamare da buon appassionato di fumetti, ma anche di donne, di Porsche e di orologi costosi. Delude sempre qualcosa che ci si è immaginati troppo a lungo. Ma quando si pensa alla mafia, a questa parola impastata di arabo e significati smargiassi, che tutto può e tutto controlla, che mette in scacco lo Stato, che allunga i tentacoli sulle istituzioni e che attraversa silente e invisibile Paesi e confini, non si immagina di vederla incarnata in un ometto improvvisamente arrendevole, che scompare quasi in mezzo agli agenti e dentro al bavero del giubbotto.

Un po' come quando arrestarono Bernardo Provenzano, sempre a Palermo, l'11 aprile del 2006: il giubbottino di nylon, il cappuccio della felpa che faceva capolino e quella montatura degli occhiali troppo sottile per una faccia tanto spessa. Solo gli zigomi arrabbiati facevano pensare alla ferocia di «Binnu 'u Tratturi», che aveva iniziato la sua carriera smettendo la scuola in seconda elementare e macellando clandestinamente animali. Tutto un programma. Finì con i pizzini intercettati dalla polizia e il blitz in un casolare a due chilometri da Corleone: viveva lì con pochissime cose, in ancor meno metri quadrati. E anche il giorno delle manette a Totò Riina (a lui le misero) il 15 gennaio 1993, il nostro immaginario non ebbe soddisfazione.

Il mafioso odiato dai mafiosi, che rese visibile la crudeltà che la mafia aveva sempre cercato di mettere in atto di nascosto, lo spietato silenzioso e malmostoso, disciplinato e senza vizi

che, di fatto, rimase ai vertici di Cosa Nostra trentacinque anni, non ce lo aspettavamo come lo vedemmo quel giorno: apparentemente innocuo nelle sue linee pingui rivestite di grisaglia. Un ometto anche lui, alla fine...

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