Se i giudici stravolgono le parole della legge

La magistratura "politica"

Se i giudici stravolgono le parole della legge
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La potenza racchiusa nelle parole è stata già a più riprese sottolineata in passato (da Gorgia a Feuerbach, secondo i quali sono le parole, in definitiva, a governare l'umanità). Occorre fare buon uso delle parole, scegliendone una (o alcune) piuttosto che un'altra (o altre), consapevoli del vincolo che il loro impiego comporta. Fin qui, sembra la fatica dell'ovvio. Ma se ci si addentra ad esaminare i rapporti fra le parole del legislatore e le parole del giudice, le cose prendono una strana piega. Ecco alcuni esempi. Secondo i giudici italiani, la diffusione di onde elettromagnetiche va punita come «getto pericoloso di cose». Si ha «sostituzione di persona» quando qualcuno si finge datore di lavoro, medico o altro professionista. È stata considerata violenza sessuale consumata un abbraccio, mentre in altra occasione si è ritenuto che non sia «osceno» dare pacche sul lato B di una donna (ma qui è forse utile segnalare che l'imputato era un magistrato appartenente al medesimo organo che ha emesso quella decisione). In alcuni casi, i giudici sono persino riusciti a far dire alla legge il contrario di quello che la stessa dice. In tema di separazione coniugale il legislatore prevedeva sino a poco tempo fa il potere del giudice di ordinare al datore di lavoro dell'obbligato il pagamento diretto all'altro coniuge di «una parte» dello stipendio. Bene, i giudici hanno affermato che il lemma «parte» può essere sinonimo di «tutto», con buona pace dell'italiano, della logica e della matematica. Questi esempi confermano che i giudici nostrani sono talvolta inclini a non rispettare il vincolo del testo normativo e facendosi portatori di pregiudizi, opinioni personali, ideologie o altro decidono casi giudiziari sventrando quelli che Natalino Irti chiama i «cancelli delle parole» della legge. La legge, però, prodotto di confronti e compromessi tra diverse forze politiche, è e rimane l'espressione della sovranità popolare.

La legge ha una legittimazione diversa da quella che contraddistingue le decisioni dei giudici: a questi ultimi, infatti, non è consentito di travisare, travalicare o trascurare il messaggio comunicativo del legislatore, che è anzitutto rivolto agli amministratori della giustizia, in quanto suoi mandatari («in nome del popolo» non è solo una formula di stile che si legge nella intestazione delle sentenze, ma sottolinea l'assetto tipico di uno Stato di diritto). Vero che è ineliminabile dall'esperienza giuridica la componente interpretativa, presupponendo la legge come ogni fenomeno comunicativo una connessione fra significanti e significati. Vero è anche, però, che il testo normativo, oggetto di interpretazione, delinea una cornice di possibili significati da esso ricavabili, mentre molti altri risultano con esso del tutto incompatibili. Questo è il senso autentico della legalità, anche costituzionale: cui ripugna l'arbitrio, la manipolazione e, in definitiva, il creazionismo giudiziario. Altrimenti, con la liquefazione della distinzione fra legislazione e giurisdizione non soltanto verrebbero oltrepassate le colonne d'Ercole della semantica, ma si smarrirebbe anche il senso temporale delle due diverse attività: come già intuìto da Gerhart Husserl, la prima guarda, di regola, al futuro, pianificando o programmando, mentre la seconda guarda al passato, perché destinata a realizzare il piano o programma voluto dal legislatore, e dunque dal popolo.

Per superare i «cancelli delle parole» della legge è necessario, quindi, cancellare le parole. Ma questa operazione è una prerogativa della politica, non della magistratura.

*Professore associato di diritto privato presso l'Università degli Studi di Milano

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