N uova prova di fuoco per Donald Trump in merito alle indagini sul Russiagate. Dopo la deposizione di James Comey, il grande accusatore del presidente americano, è la volta del suo alleato di ferro Jeff Sessions. Il ministro della Giustizia ha testimoniato ieri davanti alla commissione intelligence del Senato, la stessa dove la settimana scorsa l'ex direttore dell'Fbi ha accusato il tycoon di avergli fatto pressione nell'inchiesta e di aver mentito sui motivi del suo licenziamento. Sessions ha difeso strenuamente le sue azioni, rispondendo ad una raffica di domande sul ruolo avuto nell'allontanamento di Comey e sul perché abbia deciso di ricusarsi dal Russiagate. L'idea che «io sia colluso con la Russia o sia al corrente di una collusione con la Russia per colpire questo Paese, che ho servito con onore per oltre 35 anni, è una bugia odiosa e sconcertante», ha attaccato il ministro, parlando sotto giuramento. Quindi, ha detto di non aver partecipato ad alcun incontro con i funzionari di Mosca sulle elezioni e di non avere avuto un terzo incontro con l'ambasciatore russo negli Usa Sergei Kislyak.
Sessions era già coinvolto nell'inchiesta e dopo l'accusa di aver tenuto nascosto due incontri con Kisliak ha deciso di ricusarsi dalle indagini, aprendo la strada alla nomina del procuratore speciale (e facendo infuriare Trump). Nella fase a porte chiuse della deposizione di Comey però, l'ex capo del Bureau ha affermato che il ministro avrebbe visto una terza volta, senza mai dichiararlo, l'ambasciatore. Sulla decisione di ricusarsi dalle indagini, invece, Sessions ha assicurato: «Sentivo che fosse richiesta» dalle regole del Dipartimento di Giustizia, non perché sia stata commessa alcuna violazione. Mentre sul licenziamento di Comey ha sottolineato: «Gli ho detto di seguire le regole del Dipartimento nei colloqui col presidente». Poi ha ribadito che «non c'è nulla di male» nel fatto che l'inquilino della Casa Bianca incontri il direttore Fbi.
A poche ore dalla sua attesissima testimonianza, a surriscaldare l'atmosfera sono state anche le indiscrezioni secondo cui il Commander in Chief, dopo Comey, starebbe pensando di silurare anche il procuratore speciale Robert Mueller, che ha ereditato il coordinamento delle indagini sui possibili legami tra membri della campagna di Trump e uomini del Cremlino. «Ho fiducia in Mueller, non so il presidente» ha tagliato corto il ministro. A far trapelare la questione è stato un amico di vecchia data di Trump, il Ceo di Newsmax Media Christopher Ruddy, il quale ha spiegato che «il tycoon ha preso in considerazione di licenziare Mueller». Parole che hanno scatenato un putiferio riaprendo i paralleli tra il Russiagate e il Watergate, con la Casa Bianca che ha smorzato le polemiche solo a metà: si tratta delle «opinioni» di Ruddy, si è limitata a dire la portavoce. E il tycoon ha twittato: «I finti media non sono mai stati così in torto o così luridi». Nel frattempo anche il vice ministro della Giustizia Rod Rosenstein è stato ascoltato in Congresso, e in particolare in merito alle indiscrezioni sul potenziale siluramento di Mueller. Rosenstein, colui che dovrebbe di fatto dargli il ben servito, ha spiegato che il procuratore speciale non sarà allontanato senza una giusta causa: «Non ho intenzione di eseguire alcun ordine se non penso che sia legale ed appropriato, e non ci sono prove che ci sia una buona causa per licenziarlo», ha affermato, precisando però come il Trump non abbia mai parlato con lui del procuratore.
Del coro di chi pensa che far fuori Mueller sarebbe una pessima idea ci sono anche tanti membri del
partito repubblicano. Lo speaker della Camera Paul Ryan, che pure ha bollato come «voci» le indiscrezioni trapelate, ha detto da parte sua di avere fiducia nel procuratore e che bisogna «lasciargli fare il proprio lavoro».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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