Scarpetta patrimonio dell'umanità. O almeno dell'italianità. Quello di raccogliere con il pane il sugo avanzato alla fine di un piatto è da sempre un gesto che indica un approccio popolaresco all'atto del mangiare, amato da tutti ma da molti considerato maleducato, forse per l'antico retaggio dell'Italia povera o neo-ricca per cui andava evitato qualsiasi gesto potesse essere scambiato come traccia di fame atavica. Quella stessa filosofia per cui nella Napoli di un secolo fa era buona norma, quando si era invitati a pranzo a casa di qualcuno, lasciare nel piatto il cosiddetto «muorzo r'a crianza», il boccone dell'educazione, per dimostrare di essere sazi, anche per non mettere a disagio il padrone di casa che di fronte a una voracità eccessiva avrebbe pensato di dovere offrire più cibo ai suoi commensali. Era un'epoca in cui le convenzioni sociali erano più importanti della soddisfazione del cuoco o della sostenibilità anti-spreco (che del resto, si sa, mica si mangia).
La relazione degli italiani con la scarpetta è raccontata da un'indagine condotta da YouGov e commissionata da Barilla: ebbene, il 68 per cento degli italiani ama indulgere ai tempi supplementari del piatto ma molti si trattengono dal ripulire il piatto con il pane in contesti formali: tra coloro che adorano la scarpetta, il 60 per cento si astiene quando va nei ristoranti fine dining e il 48 per cento sente la mancanza dell'operazione.
Una rinuncia inutile, perché in realtà gli chef stellati adorano il cliente che fa tornare il piatto in cucina come uscisse dalla lavastoviglie, vivono la circostanza come un segno di apprezzamento del loro lavoro. E poi, diciamolo una volta per tutte, il galateo dei ristoranti fine dining è molto meno ingessato di quello che si pensi. «Credo fermamente che la grandezza della cucina italiana risieda non solo nella varietà e nel sapore, ma anche nella sua capacità di essere costantemente reinterpretata valorizzando ogni ingrediente con semplicità», dice Davide Oldani, chef del bistellato D'O a Cornaredo. «Nella mia cucina - ci dice Andrea Aprea, chef dell'omonimo ristorante bistellato di Milano - c'è il ragù, c'è l'amatriciana, c'è l'uovo al purgatorio, piatti assolutamente adatti alla scarpetta e io la incoraggio assolutamente». E Andrea Berton, altro stellato milanese, si dice «felice quando i clienti la fanno, vuol dire che il piatto è piaciuto. E anche il pane».
Ci sono locali che fanno una cucina «da scarpetta», come Silvano a piazza Morbegno, nel cuore di NoLo: una trattoria con bancone che cita la Milano di Jannacci, recentemente insignita dei Tre Gamberi che identificano le migliori osterie d'Italia nella guida Ristoranti d'Italia del Gambero Rosso e che ha ottimo pane e grandi intingoli (perché per una buona scarpetta ci vogliono entrambi) e un'atmosfera informale che non rende necessario consultare il galateo. Antesignano della «cucina da scarpetta» è Antonello Colonna, storico chef di Labico, vicino a Roma: «La scarpetta - sorride - è la vera testimonianza di un piatto riuscito. Nel mio locale ci manca solo che la facciano con il vino...
E comunque io giù venticinque anni fa proponevo le scarpette come pietanze, piccole mise un bouche con i grandi sughi romani, l'amatriciana, l'arrabbiata, la pizzaiola». Sarà la scarpetta la chiave per combattere la tanto decantata crisi del fine dining?
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