Ora la palla è nel campo di Bibi Netanyahu. Ma la sua non è una partita facile. Perché se vincere la guerra in quel di Gaza è stato lungo e sanguinoso, conquistare la pace rischia di essere ancor più complicato. Anche perché in quel campo Bibi è tutt'altro che bravo. E ancor meno lo sono i suoi alleati della destra messianica. Ma partiamo dalla guerra. Quando, all'indomani delle stragi del 7 ottobre, ordinò l'assalto alla Striscia, il premier israeliano promise la liberazione degli ostaggi e la decapitazione della dirigenza di Hamas. Ora l'obbiettivo è a un passo. L'uccisione di Yahya Sinwar completa l'opera già iniziata con l'eliminazione di Mohammed Deif, capo militare dell'organizzazione e di Ismail Haniyeh, il leader politico del movimento ammazzato a Teheran a fine luglio. A Bibi non restano né obiettivi né scusanti. Gaza è una distesa di macerie e per ammissione stessa dell'esercito israeliano Hamas non ha più una forza militare, ma solo un migliaio di militanti male armati e privi di strutture di comando. Come ripetono i parenti degli ostaggi resta solo da trovare un accordo con il Qatar e Hamas per farsi restituire la sessantina di prigionieri ancora vivi e i corpi dei poveretti morti in prigionia. Ma questa è la parte più facile.
Un Hamas senza capi e senza esercito non può pretendere molto e dovrà accontentarsi della liberazione di un numero esiguo di prigionieri palestinesi. Il problema è l'estremismo degli alleati di governo di Netanyahu pronti a dimostrarsi irremovibili anche di fronte a una vittoria quasi completa. Un estremismo che li rende quasi indifferenti alla sorte dei propri connazionali. Tanta incomprensibile e inesorabile risolutezza ha un motivo. Portare a casa gli ostaggi significa passare al livello successivo della partita. Un livello in cui non parlano più le armi, ma la capacita di mettere giù un disegno politico non solo per una Gaza rasa al suolo e per i suoi due milioni di abitanti, ma anche per i tre milioni di palestinesi residenti in una Cisgiordania dove la sovranità di un'Anp già priva di credibilità è ulteriormente compromessa dalla presenza di 500mila coloni ebrei. Di fronte a questo rebus Bibi non ha molte soluzioni. La formula dei due popoli e due stati è ormai un logoro «flatus vocis» privo di qualsiasi significato politico e territoriale. Un «flatus vocis» che Netanyahu non può pronunciare senza far tentennare il proprio esecutivo. E qui sta il vero problema. Gli Accordi di Abramo con l'Arabia Saudita e il resto delle nazioni sunnite tanto cari a Bibi staranno in piedi solo se Israele garantirà la permanenza di quei palestinesi dentro una Gaza e una Cisgiordania governate da un'entità politica autonoma e indipendente. Ma se il progetto è disperderli nei Paesi vicini il primo «no» sarà quello dei Paesi arabi. E per Israele non è una bella prospettiva. Perché, come aveva ben capito Ariel Sharon, governare con l'occupazione militare una Gaza e una Cisgiordania dove il tasso di crescita demografico è molto superiore a quello israeliano significa condannarsi a vivere con la spada al fianco. Cioè a una guerra senza fine.
Ma l'incapacità di trovare soluzioni politiche riguarda anche il fronte libanese. Hezbollah, a detta di molti esperti libanesi vicini al movimento sciita, non è in grado di resistere più di un altro mese. E il regime di Teheran non è disposto a rischiare la propria sopravvivenza per garantire quella del Partito di Dio. La sconfitta o la resa di Hezbollah potrebbe dunque chiudere anche la partita con Teheran. Anche perché una Repubblica Islamica dimostratasi incapace di proteggere Hezbollah e Hamas difficilmente potrà continuare a rivendicare lo status di potenza regionale. Ma anche qui il problema di Netanyahu sarà costruire la pace.
Solo l'aiuto e la collaborazione dei Paesi arabi consentirà di neutralizzare Hezbollah non solo militarmente, ma anche politicamente. E solo questi passi restituiranno un tessuto statale al martoriato Libano. Ma se il progetto tornerà a essere quello di un'insostenibile occupazione del Sud del Paese, i primi a tirarsi indietro saranno i vicini arabi.
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