Dopo l'«Opzione Tutti» torna in auge anche «Quota 41» ma con una soglia di età in entrata ancora da stabilire. Un segnale che il dibattito tra Fratelli d'Italia e Lega sulla riforma pensionistica sta animando questi giorni che precedono la formalizzazione dell'incarico al presidente di Fdi, Giorgia Meloni.
Ieri il vertice del Carroccio ha fatto il punto sul tema previdenziale, oltre che sui principali dossier economici. L'introduzione della sogli di età, spiegano fonti della maggioranza, permetterebbe infatti di ridurre l'impatto previsto da «Quota 41», che a regime richiederebbe risorse pari a circa 5 miliardi l'anno. Si attendono comunque i calcoli che verranno elaborati dall'Inps. È chiaro, tuttavia, che fissare l'età pensionabile a 61 anni rappresenterebbe una replica di «Quota 102» che scade a fine anno e il cui successo è stato limitato proprio dall'unione del requisito dell'età oltre quello dell'anzianità contributiva.
Ma a questo punto in casa Salvini potrebbe sorgere anche qualche dubbio sul presidente Inps, Pasquale Tridico, che ieri ha dichiarato pubblicamente di apprezzare il modello di lavoro di Fratelli d'Italia. «Credo che tutte queste riforme siano orientate a un principio giusto, ovvero quello di garantire una certa flessibilità in uscita rimanendo ancorati tuttavia al modello contributivo. Su questo eravamo orientati anche durante il governo Draghi», ha dichiarato appoggiando apertamente le indicazioni del partito di maggioranza relativa. Il problema è che «Opzione Tutti» funziona come «Opzione Donna», cioè prevede il ricalcolo contributivo degli assegni e prima si esce. Le donne dipendenti possono farlo a 58 anni, mentre le autonome a 59 anni sempre con 35 anni di contributi. Solo il 25% della platea potenziale ha aderito a questa possibilità perché più si è lontani dalla pensione più si perde. Per gli uomini la percentuale di adesione potrebbe, quindi, essere ancora più bassa. Se infatti si decidesse di uscire a 58 anni (con assegno che arriva comunque a 59 dato che bisogna attendere l'anno di finestra mobile) si perderebbe circa il 30% della pensione che si sarebbe maturata uscendo oltre sette anni dopo (con 42 anni e 10 mesi di contributi) perché i contributi versati sarebbero meno e andrebbero «spalmati» su molti più anni. In pratica, secondo alcuni calcoli, si avrebbe a che fare con un primo assegno di pensione pari a circa la metà dell'ultimo stipendio.
I sindacati hanno manifestato subito il proprio scontento. «Mandare in pensione le persone riducendogli l'assegno - ha sottolineato il segretario della Cgil, Maurizio Landini (in foto) - non mi pare sia una grande strada percorribile. Credo che il tema sia quello di affrontare la complessità del sistema pensionistico». «Sul futuro della previdenza e delle pensioni è assolutamente auspicabile l'apertura di un confronto tra governo e sindacati appena possibile, anche per scongiurare la girandola di proposte che abbiamo ricominciato a leggere sui media», ha dichiarato in una nota il segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra.
«Per la Cisl introdurre meccanismi di flessibilità per andare in pensione, tutelare il potere di acquisto delle prestazioni, definire una pensione contributiva di garanzia per chi ha carriere di lavoro deboli come i giovani e le donne, rispondere al tema del lavoro usurante e sostenere maggiormente la pensione complementare rimangono le priorità», ha aggiunto.
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