Ci sono voluti nove anni per chiudere il contenzioso con l'India sul caso dei due marò, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, coinvolti nella morte di due pescatori del Kerala nel 2012. Ma la vicenda non è conclusa, anzi. In primo luogo, perché c'è ancora l'inchiesta aperta in Italia dalla Procura di Roma, ma soprattutto perché manca una risposta a molti interrogativi. Hanno poco da gongolare i nostri politici, con Luigi Di Maio in prima fila. «Chiusi tutti i procedimenti giudiziari in India ha scritto su twitter il nostro ministro degli Esteri . Grazie a chi lavorato con costanza al caso, grazie al nostro infaticabile corpo diplomatico. Si mette definitivamente un punto a questa vicenda».
A parte il fatto che non è vero che ci sia un punto definitivo sulla questione, ma qualcuno crede veramente che sia tutto chiarito? L'Italia ha pagato 1,1 milioni di risarcimento, di fatto un'ammissione di responsabilità, eppure Latorre e Girone hanno sempre negato di aver sparato contro il peschereccio. I due fucilieri del San Marco hanno mentito per nove anni? E perché viene severamente proibito di esporre pubblicamente la loro versione dei fatti? La stessa moglie di Latorre, ieri, non ha trattenuto l'indignazione. «Da 9 anni sono costretta a parlare a nome di mio marito ha detto Paola Moschetti -. A lui è stato fatto esplicito divieto di parlare pena pesanti sanzioni. Non può nemmeno partecipare a qualsiasi manifestazione pubblica. È vincolato al segreto. È ora di chiedersi perché le autorità militari vogliono mantenere il segreto su ciò che sa e vuol dire. Quello che so è che per la politica italiana siamo stati carne da macello. Presto Massimiliano si presenterà alla procura di Roma».
Già, perché le autorità militari impongono il segreto? C'è qualcosa di scomodo che l'opinione pubblica è meglio non sappia? Anche la moglie di Girone non risparmia critiche. «Interessante leggere i ringraziamenti del ministro Di Maio nei confronti di chi ha lavorato sodo ha detto Vania Ardito -, ma prima di tutti è importante ringraziare i due soldati che si sono sacrificati alla sottomissione indiana per tanti anni che mai più gli saranno restituiti». Non occorre riepilogare l'intera la vicenda, molti ricordano bene il gioco allo scaricabarile della politica, che ha portato addirittura alle dimissioni del ministro degli Esteri Giulio Terzi, nel 2013. Ma il tempo passa, i ricordi si affievoliscono e quello che è stato il più grande schiaffo diplomatico (non dimentichiamo che l'India trattenne come «ostaggio» il nostro ambasciatore a New Delhi affinché l'Italia rispedisse laggiù i due marò, che godevano di un permesso in patria) ora viene dipinto come un grande successo. Certo, il Tribunale internazionale di Amburgo nel 2020 ha riconosciuto l'immunità funzionale dei nostri militari, ma allo stesso tempo non ha ammesso la giurisdizione italiana e ha stabilito che l'incidente andava sanato con un risarcimento alle famiglie delle vittime, all'armatore del peschereccio indiano e agli altri membri dell'equipaggio. Di fatto, ha affermato che i nostri due marò sono responsabili delle morti anche se non possono essere giudicati in India.
E i nostri politici si sono accodati, senza andare a fondo nel caso, senza ravvisare alcuna necessità di portare alla luce quello che è realmente accaduto. Sul caso Regeni, l'Italia è stata come un mastino con l'osso. Ma l'Egitto non è l'India. E nessuno affigge manifesti per chiedere «verità per i due marò». Speriamo lo faccia la Procura di Roma.
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