Nel cortile di Montecitorio trovi l'ottimo ministro Renato Brunetta, talmente grato a Mario Draghi per avergli dato modo di eccellere nel suo governo, da essere l'unico grande elettore che scommette sulla sua elezione al Quirinale. «Certo che si finisce su Draghi - si sbilancia con il cronista - lui è la garanzia a livello internazionale e i mercati preferiscono una garanzia che duri sette anni e non uno. Chi ne prende il posto da premier? Lo hai davanti. Si farà lo stesso governo, magari con qualche rinforzo, con lo stesso programma. Cioè il Pnrr».
Brunetta è un po' ottimista, non fosse altro per le sue aspirazioni, perché nel consesso dei grandi elettori sono pochi quelli che fanno il nome del premier per la successione a Mattarella. Anzi. I più dicono che non gli piace, altri giurano che non lo voteranno e, anche quelli che almeno per disciplina dovrebbero votarlo, ammettono a mezza bocca che non gli va del tutto a genio.
Sulle scale che immettono dal cortile in Transatlantico trovi l'ex ministro Paola De Micheli, fedelissima di Enrico Letta e con una certa attenzione per la liturgia delle istituzioni. Certo, il segretario del Pd continua a ripetere che Draghi va preservato, lo considera un panda da salvare, ma lei ha delle riserve sui modi utilizzati dall'animale in via di estinzione per proporsi per il Quirinale. «È andato - ammette - oltre, molto oltre. Anche l'incontro con Salvini lo ha gestito male. Gli ha detto che non parla del governo che dovrebbe sostituire il suo e che deciderà il nome del suo successore a Palazzo Chigi quando sarà presidente. Ma come si fa? Allora che lo ha visto a fare?! Qui bisognerebbe convincere Berlusconi ad accettare Giuliano Amato così Draghi resta imbullonato a Palazzo Chigi. Farà i caroselli, ma non può dimettersi quando c'è alle porte una guerra in Ucraina!».
E la De Micheli sulla carta fa parte di quelli che dovrebbero sponsorizzare il premier al Quirinale. Figurati gli altri. Tra i grillini, quelli che appoggiano Draghi per il Colle sono mosche bianche, si contano sulle dita di una mano. Beppe Grillo si è lavato le mani della questione: «Non mi rompete - ha risposto a chi gli chiedeva di intervenire - ho ben altri problemi». Giuseppe Conte e Luigi Di Maio continuano a litigare sull'ipotesi di un Draghi capo dello Stato. Il primo è contrario. Il secondo è favorevole solo perché è contrario il primo. «E comunque - è l'avvertimento che Di Maio ha fatto al suo interlocutore - io sono ministro degli Esteri in questo governo e anche nel prossimo. Qualunque sia».
Ma nel variegato gruppo dei 5 stelle la maggior parte non vuole neppure sentire nominare il nome del premier. Il vicepresidente del Senato, Paola Taverna, sulla trattativa intrapresa da Draghi con i partiti per assicurarsi il trasloco è perlomeno perplessa: «Un'assurdità, una follia». Gianluca Castaldi, ex sottosegretario ai rapporti con il Parlamento, che conosce l'umore del gruppo, è lapidario: «Da noi - racconta - di gente che vuole scrivere sulla scheda un nome che comincia con la D non ce ne sono. Se si presenta lo stesso Draghi rischia di non arrivare neppure a 500 voti». Il presidente della commissione Esteri del Senato, Vito Petrocelli, ha addirittura inviato una lettera a Conte per avvertirlo che il suo «no» è categorico: «Caro presidente, se fra due giorni mi dirai di votare Draghi, sappi che ti dirò di No, non nel segreto dell'urna ma pubblicamente». Mentre l'ex sottosegretario alla Difesa, Angelo Tofalo, lancia segnali al centrodestra: «Draghi mai. Invece non capisco perché dovremmo avere problemi a votare la Casellati. È la presidente del Senato». Mentre l'ex capogruppo dei Senato, Ettore Licheri, traccia un profilo psicologico del premier per motivare il suo no. «Ha un atteggiamento - osserva - di tracotanza e supponenza, non so se dettato da disperazione o da superiorità».
Uno allora si chiede: ma almeno in Italia Viva, che ha sempre appoggiato Draghi, tutti saranno d'accordo? Matteo Renzi è dalla sua parte, ma non è più così ottimista. Mille dubbi serpeggiano tra i suoi. Le ultime sortite del premier per assicurarsi il Quirinale hanno lasciato molti di stucco. «Sono la dimostrazione - confida Catello Vitiello - che lì ci vuole un politico». «L'ho detto a Matteo - rincara Marco Di Maio - tutti meno Draghi. Mi ha deluso il suo comportamento. Ha dimostrato di non essere un politico. Ha fatto errori che Casini non farebbe mai». Anche Michele Ansaldi non ha paura di mostrarsi eretico. «Intanto - spiega - il voto è segreto. Ma io mi chiedo ma come fa uno a presentarsi come servitore dello Stato e poi si mette a fare lui le consultazioni per diventare presidente della Repubblica?! Boh! La verità è che anche i tecnici quando vedono la marmellata...».
Fin qui i partiti dell'area giallorossa. Quelli che finora bocciano candidati, ma che in buona parte non si sognano neppure di supportare Draghi. Sul versante del centrodestra, com'è ovvio, invece, il no a Draghi per usare gli aggettivi di Salvini «è determinato e fermo». Tra i forzisti non ci sono dubbi. Tra la Meloni e i suoi, l'idea di un Draghi capo dello Stato, accarezzata per tattica o per il desiderio di elezioni, negli ultimi giorni ha perso fascino. Non parliamo della Lega. «Questa volta - ammette Claudio Borghi - Berlusconi rinunciando ha fatto davvero un gesto da statista. Altroché Draghi, che da servitore dello Stato maneggia per diventare presidente. Certo che certi fenomeni alla prova dei fatti... La verità è che quando stampi i soldi appari sempre come un fenomeno. Ma poi... Ora tocca a noi provarci come centrodestra, senza stare a guardare le simpatie e le antipatie tra noi, l'importante è che sul Colle salga qualcuno della nostra area». Mentre Dario Galli, ex viceministro allo Sviluppo, individua una lacuna nel candidato Draghi. «Se non hai fatto almeno una volta il consigliere comunale - si limita a dire - non puoi ricoprire un ruolo eminentemente politico come quello di inquilino del Quirinale. Anche la sensibilità politica è una competenza di cui Draghi è privo».
Questo viaggio tra i grandi elettori, per usare il linguaggio di Enrico Letta, dimostra che Draghi «è divisivo». Sul suo nome è difficile (se non impossibile) trovare un'intesa, sia nel dialogo a distanza tra i due schieramenti, sia oggi quando si vedranno da vicino. Ma la sceneggiatura è già scritta. Dopo aver detto no a Moratti, Nordio e Pera, oggi saranno avanzati i nomi della Casellati e, come vuole il Berlusconi, di Tajani.
Se Letta persevera nella sua sindrome del «veto», probabilmente uno dei due sarà portato in aula. Probabilmente la presidente del Senato: il centrodestra ha il diritto-dovere di provarci. Se passerà bene, altrimenti si opterà su qualcuno che anche se li evoca nel nome, dovrebbe evitare «Casini». O giù di lì.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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