
«Figli di cani rilasciate gli ostaggi che tenete prigionieri e mettete fine a questa storia. Smettetela di fornire scuse ad Israele e chiudetela lì». Leggete bene queste parole. Sono quelle usate ieri dall'89enne presidente palestinese Mahmoud Abbas, meglio conosciuto come Abu Mazen, per apostrofare i militanti palestinesi di Hamas e chieder loro di liberare gli ostaggi, deporre le armi e trasformarsi in un partito politico.
Un messaggio durissimo lanciato durante l'intervento al Consiglio centrale dell'Autorità Palestinese. Ma più importante del messaggio, pronunciato da un Presidente senza più un briciolo di potere, sono quelle tre parole iniziali, quell'insulto sferzante usato per mettere alla gogna Hamas. Per un musulmano dare del «figlio di un cane» ad un seguace della stessa fede significa equipararlo ad un infame. O ad un infedele. Per l'Islam i «migliori amici dell'uomo» sono animali impuri capaci di contaminare con la propria saliva i fedeli e le loro preghiere. Quindi liquidare come «figli di cani» i militanti di un gruppo fondamentalista sempre pronto ad attribuirsi il ruolo di guida della «guerra santa» e dell'Islam politico, equivale a degradarli al ruolo di blasfemi ed eretici.
Non a caso Bassem Naim, membro dell'ufficio politico di Hamas, accusa Abu Mazen di descrivere «in termini volgari una parte ampia e autentica del suo stesso popolo». Ma la pesantezza di quell'insulto è anche il simbolo della voragine apertasi all'interno della popolazione palestinese a 18 mesi dalle stragi del 7 ottobre per mano di Hamas. Una voragine che ha allungato le sue crepe dalla Cisgiordania, ancora parzialmente controllata dall'Autorità Palestinese, fin dentro quella Gaza dove nelle scorse settimane abbiamo assistito alle prime dimostrazioni anti-Hamas. E proprio su questo gioca Abu Mazen quando avverte che «la principale priorità è fermare lo sterminio in corso a Gaza» e chiede al gruppo armato di «trasformarsi in un partito politico» consegnando «il controllo di Gaza e le armi all'Autorità Palestinese». Ovviamente per capire gli obbiettivi dell'anziano Abu Mazen bisogna guardare alla storia e ai risentimenti di un Presidente che dopo essersi fatto sottrarre nel 2007 il controllo della Striscia da Hamas si ritrova oggi a dover lasciare la guida dell'Autorità Palestinese. E soprattutto consentirne una radicale trasformazione guidata dall'Egitto e dall'Arabia Saudita. Una trasformazione in cui l'anziano, ma ancora ambizioso erede di Arafat spera di poter mantenere un ruolo. E proprio per questo non esita ad assumersi il ruolo di principale avversario di Hamas all'interno del campo palestinese. In verità, però né l'Egitto, né l'Arabia Saudita, principali mentori della futura riorganizzazione dell'Autorità Palestinese, sembrano aver grandi piani per lui.
L'Egitto - subentrato al Qatar nella conduzione delle trattative con Hamas per un nuovo cessate il fuoco - sa bene che solo la nomina di un Presidente palestinese autorevole e non compromesso con la precedente gestione consentirà di dare concretezza ai piani per una tregua di lunga durata (cinque anni) accompagnata dalla creazione di un comitato dell'Autorità Palestinese capace di subentrare ad Hamas nel governo di Gaza.
Secondo il quotidiano saudita Asharq Al-Awsat la proposta di tregua, in parte già concordata da Egitto ed Hamas, prevede il rilascio in un'unica fase di tutti gli ostaggi in cambio di un numero concordato di prigionieri palestinesi, il ritiro israeliano dalla Striscia, la sospensione delle operazioni militari e l'ingresso di aiuti umanitari.
Ma Hamas chiede anche che la tregua di cinque anni sia accompagnata da non meglio chiarite garanzie internazionali. Argomenti complessi che per venir accettati da Israele richiederanno un preventivo accordo di riconciliazione tra Hamas e un'Autorità Palestinese adeguatamente ricostituita e riformata.
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