«Wir schaffen das». Ce la faremo. Era stato presentato come il più grande programma d'integrazione del dopoguerra. E probabilmente lo era.
Poco meno di 10 anni fa, scandendo in ogni occasione una specie di formula magica (auto)incoraggiante, la molto ammirata cancelliera Angela Merkel decise di accogliere in un colpo solo un numero impressionante di richiedenti asilo siriani in fuga da una guerra civile tremenda. Era l'estate 2015 e in pochi mesi arrivarono oltre un milione di profughi, che fecero della Germania il Paese con la più alta concentrazione di rifugiati, enormemente più «accogliente» dell'Italia, che per questo ricevette sonore e roboanti lezioni, non solo e non tanto in Europa, ma dalla stessa sinistra tricolore, convinta come al solito che per risolvere i problemi bastasse affidarsi ai suoi schemi ideologici, primo fra tutti un approccio manicheo all'immigrazione, che sarebbe sempre e comunque buona e giusta, e facile. Fa una notevole impressione rileggere quella vicenda alla luce di quanto accaduto a Solingen, dove - un giorno dopo il terribile attentato jihadista al «festival della diversità» con tre morti e otto feriti - il presunto autore della strage si è costituito alla polizia ancora coperto di sangue: «Sono io quello che cercate».
La Germania e l'Europa oggi sono state colpite al cuore da un odio che purtroppo non si limita ad armare la mano di qualche singolo invasato, ma è palpabile nelle città e minaccia tutti, a partire dagli ebrei.
Certo, la follia terroristica di Solingen non inficia quanto di buono possono aver realizzato centinaia di migliaia di persone accolte e pacifiche, ma il doloroso risveglio della Germania fa rovinosamente cadere le illusioni su ricette facili e indolori.
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