È stato il primo critico gastronomico italiano, quantomeno il primo a contemplare anche le recensioni negative di un ristorante o di un hotel con Il faccino nero che nel 1975 Cesare Lanza, ai tempi direttore, gli affidò sul Corriere dell'Informazione (edizione pomeridiana del Corriere della Sera). Ma nel quotidiano di via Solferino venne assunto a soli 22 anni da Giovanni Spadolini che però non vide mai in faccia. Dieci anni di cronaca nera durante gli Anni di Piombo. Lui, allora magrissimo, e il suo impermeabile bianco furono i primi ad arrivare la mattina del 17 maggio 1972 in via Cherubini a Milano, davanti alla pozza di sangue nella quale aveva giaciuto il commissario Luigi Calabresi. Oggi, a 75 anni, Edoardo Raspelli ricorda ancora tutto. La singola posizione di ogni poliziotto, uomo dei servizi, prefetto. E soprattutto ricorda il figlio di Calabresi, Mario, in braccio a sua madre. E poi il delitto di Simonetta Ferrero, la folla in via Statuto davanti all'Istituto di Igiene, con la gente in fila per vaccinarsi contro il colera... Da allora la vita di Raspelli ha preso una piega golosa e vorace. Fondatore della Guida dei Ristoranti dell'Espresso, responsabile della pagina dei Ristoranti del Gambero Rosso, ha recensito locali per il gusto.it e poi la tv. Da Che fai, mangi?! A 614 puntate di Melaverde. Mangiare è stato un lavoro oltre che una bonaria perversione. Fino a un infarto e a un bendaggio gastrico che lo fecero passare da 126 a 88 kg.
Stamattina cosa diceva la bilancia?
«96 chili. Al ristorante non vado più da quando sono stato licenziato con una mail da ilgusto.it. Chi se lo può permettere?».
È l'unico a non essere diventato ricco con la tv?
«Non mi hanno mai pagato molto».
E come vive?
«Ho due pensioni e faccio un sacco di eventi. Devo lavorare, e il verbo le dice tutto».
La gente la riconosce per strada?
«Eccome. Il mio massimo sono gli autogrill, perché lì c'è di tutto. Dalla gente che fa la pipì all'inserviente, alle famiglie in sosta. Ogni volta che qualcuno mi chiede una foto io la faccio e ringrazio sempre tutti della loro attenzione. Per questo detesto gli occhiali da sole».
Prego?
«Le lenti da sole sono respingenti. Tengono a distanza le persone. I vip che fanno i preziosi non li ho mai capiti. Se sei un minimo famoso è grazie a chi ti segue».
Invece a lei fanno piacere i fan.
«Sono più vanitoso che grasso».
Ha anche inciso nome e cognome sulle stanghette degli occhiali da vista...
«Quello è per i vuoti di memoria (ride). Volevo farci incidere anche l'iban ma mi sembrava troppo».
Troppo è stato quando le hanno recapitato una corona da morto per la recensione a un ristorante.
«Primo maggio del '79. Dovevo andare al ristorante La Scaletta per organizzare il mio addio al celibato e chiesi a mio fratello Bruno di passare da casa a ritirarmi i giornali. Lui tornò e mi disse c'è una corona di fiori davanti al portone. Ma a parte te, chi si chiama Edoardo nel palazzo?. Non c'era nessun altro, ovviamente. Mi spaventai parecchio. In quegli anni la gente sparava davvero».
Si commuove spesso quando ricorda.
«Sono sempre stato un depresso. Fin da ragazzo».
Per questo ha fatto sette anni di liceo Classico?
«Allora il liceo Parini era una caserma. Ebbi un esaurimento nervoso nel '66 e anche nel '68 e in entrambi i casi mi ritirai a metà anno. Fu grazie a un prete che passai al Carducci».
Che gioventù faticosa...
«Ho anche bei ricordi. Come le estati a Pievepelago, sull'Appennino Modenese. Avevo 12 anni e mi ero appassionato al tennis, con me giocava un ragazzino più giovane e molto bravo: Adriano Panatta».
Avrebbe potuto sfondare nel tennis. Invece si è buttato sul cibo. Cos'è stato determinante in questo?
«Forse il fatto che mio padre ci abbia sempre impedito di sentire i sapori. Per lui niente aglio, pepe, aromi... Però era un grand'uomo, avrei dovuto capirlo prima. Il 26 aprile del 1945 indossava la camicia nera ma nascondeva in casa una vecchina ebrea per salvarla. Invece per la tavola fu importante il marito di mia zia, un bravissimo maitre che partì dalla gavetta facendo il cameriere nei più grandi alberghi. Assieme a un giovanissimo Rudolf Nureyev...».
Ci sono stati altri fatti fondamentali nella sua vita. Di tutt'altro tenore. Degli abusi da ragazzino da parte di coetanei.
«In quinta elementare un compagno di due anni più grande mi portò nei bagni e si fece toccare. Mi spiegò anche come nascevano i bambini. Poi mi ricapitò in seconda media, all'Istituto Villa Palmizi di Bordighera con un altro amico. Però fu lui a toccare me e siccome io provai piacere mi sentii mortalmente in colpa. E accadde una terza volta con un gruppetto di quindicenni come me. Mi tapparono la bocca e furono loro a toccare me anche quella volta. Stesso epilogo, stesso senso di colpa».
Perché secondo lei le accaddero tutte queste cose?
«Ognuno di noi, compreso me, ha un angolino di omosessualità».
È sposato e ha due figli.
«Due figli in gambissima, mia figlia salva le donne massacrate dagli uomini, mio figlio è ingegnere. Con mia moglie stiamo insieme dal 1970. È l'unica donna che abbia mai avuto nella vita. Da giovane, tutti i miei amici avevano una fidanzata, io no. Mi guardavo allo specchio, mi accarezzavo i baffi e pensavo al piacere provato quelle volte con i miei compagni. E mi dicevo, ma allora forse sono omosessuale...».
Ne ha parlato con la sua famiglia?
«Sì e non è stato semplice. Con i miei genitori no. Con mia madre andai al cinema a vedere un meraviglioso film Le amicizie particolari: la storia di due ragazzi gay. Mia mamma si voltò verso di me e mi disse Edoardo, piuttosto che così, ti preferirei morto. Non lo scordo più».
E poi?
«A sedici anni andai a Parigi in autostop. Volevo provare i ristoranti La Tour d'Argent e Lasserre. Tornai con la stampa di un quadro comprato al museo Rodin, ritraeva un efebo nudo che suonava il piffero. E vedendolo, il mio fratellino disse Mammaaaa... guarda cos'ha portato Edoardo. Anche quelle parole mi risuonano nelle orecchie».
Perché si commuove di nuovo?
«Ho più anni alle spalle che davanti e sono ateo. Non sa quanto preferirei credere in Dio».
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