"Questi atti non li mostriamo". Speranza nasconde un altro segreto

Il ministero si oppone: non intende fornire i verbali della task force istituita da Speranza. "Era un tavolo informale"

"Questi atti non li mostriamo". Speranza nasconde un altro segreto

L’uomo che predica trasparenza, razzola opacità. Dopo la mancata pubblicazione del “piano segreto” anti Covid, il ministero della Salute sceglie di tenere chiusi nei cassetti del dicastero anche i verbali della task force sul coronavirus che un anno fa venne istituita da Roberto Speranza. Niente da fare. Nonostante i continui tentativi di due parlamentari, e lo scontato ricorso al Tar, l’avvocatura dello Stato ha deciso di resistere in aula e non intende mollare la presa. Com’era la storia dell’azione ministeriale limpida e trasparente?

L’origine di questa intricata faccenda, di cui ilGiornale.it ha avuto accesso ai vari atti, risale al lontano novembre del 2020. Galeazzo Bignami e Marcello Gemmato, deputati FdI, bussarono alla porta di viale Lungotevere Ripa 1 per ottenere “copia di tutti i verbali della task force”. Tempo dopo, il dicastero rispose picche: non ve li diamo, perché non si tratta di robe ufficiali ma di un “tavolo informale”. Sollecitato di nuovo, l’ignoto dirigente dell’Ufficio di Gabinetto ribadì nuovamente che le “minute” e “gli scritti informali” prodotti in quelle riunioni erano solo “resoconti riepilogativi”. Niente di serio, insomma.

Bignami è però testardo e per riuscire a leggere quei documenti si è rivolto al Tar del Lazio, così come fece - vincendo la causa - per stanare il “piano segreto” anti Covid. Bene. Il ministero della Trasparenza ovviamente s’è opposto, puntando sull’opacità dei formalismi. Nella memoria difensiva, infatti, l’Avvocatura si è aggrappata a cavilli da azzeccagarbugli per sostenere una decisione che, in fondo, appare squisitamente politica: quella di non rendere edotti i cittadini sul contenuti dei verbali della task force.

Direte: ma che vi interessa? In realtà la questione è collegata intimamente al terremoto di questi giorni che circonda Speranza, traballante ministro salvato (per ora) dalla fiducia di Pd e Mario Draghi. C’entrano insomma l’inchiesta della procura di Bergamo, il piano pandemico mai aggiornato dal 2006, la rogatoria inviata all’Oms, l’iscrizione nel registro degli indagati di Ranieri Guerra, la querelle sul report di Francesco Zambon scomparso dal sito dell’Oms e anche le “reticenze” del ministero denunciate dal procuratore bergamasco Maria Cristina Rota. Lo stralcio di uno dei verbali della task force emerse a gennaio quando i pm inviarono la guardia di Finanza al ministero con in mano un decreto di perquisizione locale e informatica. Ad attirare l’attenzione dei magistrati fu il “resoconto del 29 gennaio” ed in particolare “le dichiarazioni verbalizzate” di Giuseppe Ippolito, direttore dello Spallanzani, il quale aveva invitato i presenti a "riferirsi alle metodologie del Piano pandemico di cui è dotata l’Italia e di adeguarle alle linee guida appena rese pubbliche dall’Oms’”. Da qui le domande di chi indaga: perché il suggerimento cadde nel vuoto? Perché la task force e il ministro Speranza preferirono investire tempo e risorse per riscrivere un piano nuovo di zecca anziché rispolverare quello esistente come suggerito dall’Oms? Piuttosto che niente, meglio piuttosto. No?

Ma andiamo alla memoria difensiva del ministero. Per l’avvocatura il diniego alla pubblicazione deriva dal fatto che “non esistono” verbali sulla task force. Possibile? Sì. Pare infatti che negli archivi ci siano solo “resoconti informali, con allegato l’elenco dei presenti" alla riunione. In pratica, una nube inconsistente. Cioè: questi cervelloni decidevano le sorti sanitarie del Paese, e lo facevano informalmente? Come si sta al bar a chiacchierare della moviola? Addirittura, spiega l’avvocatura, non v'era neanche un “decreto ministeriale istitutivo” che ne disciplinasse “formalmente l’attività” o ne scandisse “tempi e modalità di procedimento”. Una struttura “snella” e “non burocratizzata”: praticamente si incontravano per amicizia. Il legale ci tiene tuttavia a precisare che questa “informalità” nulla toglie “all’importanza dell’attività svolta dalla task force”. Ed è vero: ha monitorato l’evolversi dell’epidemia e aiutato Speranza a individuare le misure da adottare. Un esempio? È grazie alla sua “consulenza” se il ministro ha deciso di chiedere il 31 gennaio 2020 la dichiarazione dello Stato di emergenza. Mica robina da niente. Proprio per questo ci si aspettava maggiore "ufficialità".

In realtà, ovviamente, delle carte esistono. Ma il ministero non intende mostrarle. “Gli unici scritti esistenti”, spiega l’avvocatura, sono dei “resoconti, "conservati agli atti come verbali” (?) e redatti da “un funzionario, di volta in volta presente alla specifica riunione" che annotava "sinteticamente i diversi interventi”, ma non li trascriveva integralmente. Il funzionario peraltro è ignoto, come il milite, visto che nei fogli di riepilogo non appare neppure il suo nome. Inoltre pare che i documenti non siano stati neanche “letti, approvati e sottoscritti dai presenti”, tanto che il ministero non ritiene possibile “attestare che riportino fedelmente gli interventi dei partecipanti al tavolo”. Infine mancano l’intestazione, la data, la firma, il protocollo interno e via dicendo. Sintesi: non essendo “documenti amministrativi” veri e propri, il ministero non intende fornirli a chi li richiede. Amen.

Qui allora le domande si accavallano.

Ma se non si tratta di atti ufficiali, cosa sono? Carta straccia? Cioè: il ministero faceva riunioni fondamentali per la risposta italiana al coronavirus, redigeva delle minute, non le firmava e neppure le protocollava? Non è strano? E poi: cosa cambia se, come dice l’avvocatura, i verbali sono stati “segnati con un mero codice identificativo ai soli fini della gestione archivistica” (cioè: archiviati) ma non “protocollati”? Un ministro “trasparente” non s’accatta a questi formalismi, no? Poi uno può anche decidere di chiudere gli atti in un cassetto: una forte decisione politica di questo tipo può anche avere un suo fondamento, se volete. Ma a quel punto il titolare del dicastero dovrebbe almeno evitare di presentarsi come il Dio Sole della Trasparenza. Perché la forma stona coi contenuti. E l’abito non fa il monaco.

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